Scrivono i Prof

L'esperimento dei perché?

Scritto da prof.ssa Luisella Saro il 12 Aprile 2010.

Se devo essere sincera, non entro volentieri in classi che non sono “mie”.
Amo varcare la soglia di aule che sento come stanze di casa e in cui vedo volti compagni di strada; persone che conosco e che ri-conosco, non solo perché note, ma soprattutto perché, come un dono immeritato, di quei ragazzi mi si svela ogni giorno un pezzetto nuovo di umanità e ciò riempie il mio cuore di ricchezza e dunque di gratitudine.
Capita, però, che qualche volta una “mia” classe sia in viaggio di istruzione, o impegnata in uno stage e così, come un soldatino obbediente, vado a fare supplenza qui o lì.

Mentre scrivo mi accorgo che prima, forse, non ho detto la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità, perché, se ci penso, se è vero che entro spesso poco motivata in queste classi che non conosco, in realtà capita quasi sempre che ne esca con un piccolo tesoro, perché è proprio impossibile non sentirsi provocati da tutti quegli occhi puntati addosso, specie quando non sei il “loro” insegnante.
E’ vero che ci si incrocia lungo i corridoi e magari per educazione ci si saluta distrattamente con un cenno del capo; sarà anche vero che la tua fama di “insegnante-rompi del triennio” ha oltrepassato i muri delle tue tre aule e, come un’eco, rimbalza di piano in piano, ma trovarsi a tu per tu è…un’altra cosa. Per gli studenti e pure per me.
E così, proprio perché non sei la “loro” insegnante, capita che accada un po’ come nei viaggi in treno, quando - chissà perché - racconti ad un emerito sconosciuto tutta la tua vita, poi il treno si ferma, il viaggio finisce, ci si saluta ed ognuno va per la sua strada. Sono incontri un po’ bizzarri che, forse proprio per questo, non dimentichi più.
A volte i ragazzi fan capire che hanno bisogno di ripassare, perché magari l’ora successiva hanno compito o un’interrogazione; altre volte chiedono se possono “prendersi avanti” con i compiti per casa e lascio fare. Qualche volta, siccome il tempo è prezioso, pur non permettendomi di intrufolarmi nel lavoro che stanno svolgendo i colleghi di quel Consiglio di classe, approfitto dell’ora di supplenza per uno dei miei “esperimenti”. Lo chiamo “l’esperimento dei ‘perché?’”. Successo garantito.
Facile. Si comincia con il porre agli studenti una sfilza di domande apparentemente banali, come, ad esempio: “Perché venite a scuola?”, “Perché secondo voi ha senso studiare la letteratura italiana?”, “Perché vale la pena passare il pomeriggio a studiare?”…e così via.
Silenzio di tomba. Paiono talmente scontate, queste domande, se pensiamo che i ragazzi hanno già frequentato i cinque anni della scuola elementare e i tre anni di scuola media e poi, a seconda della classe in cui mi trovo, pure un po’ di tempo alle superiori, che uno si immagina che le risposte arrivino supersonicamente. Invece…
Invece ogni volta mi accorgo che la reazione dei ragazzi è la stessa: un silenzio pensieroso e basito di chi quelle domande, che pure, di sicuro, ha nel cuore, forse, in classe, non se le è mai sentite porre; come se le risposte che ciascuno di noi, giovane o adulto, è chiamato a darsi ogni giorno, ogni secondo di ogni giorno, possano essere date per scontate. O dette una volta per tutte e poi cacciate in un armadio virtuale di cui si è buttata la chiave.
Non sto a riassumere cosa mi dona, immancabilmente, “l’esperimento dei ‘perché?’” ; del resto, non si è mai sentito che, sceso dal treno, il passeggero sconosciuto a cui hai raccontato la tua vita sia poi andato a spifferare i tuoi “segreti” a tutti… Posso solo dire che è un esperimento che “riesce” sempre. “Riesce” per me, perché mi sprona a dare ragione ai ragazzi della mia scelta di svolgere con entusiasmo sempre nuovo il mestiere-più-bello-del-mondo e “riesce” per loro, perché li spinge a “guardarsi dentro” con onestà.
E’ un tesoro che custodisco gelosamente nel cuore e che -miracolo!- mi fa uscire dalle classi che non sono “mie” con la sensazione forse un po’ presuntuosa che siano diventate, magari solo per un’ora, anche un po’ “mie”. La prova? Quando, dopo quella “supplenza”, ci si incontra per caso in corridoio, il saluto è un sorriso. O quello sguardo un po’ complice di chi sa che è legato all’altro da un segreto speciale.

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