E il giorno della fine (non) ti servirà l'inglese
Scritto da Prof. B il 14 Dicembre 2015.

In How to be an Alien, un bel libretto umoristico del 1946, lo scrittore di origine ungherese George Mikes spiega quale sia la percezione che gli inglesi hanno di sé e dei coabitanti del globo terracqueo. Frequentata a lungo una giovane britannica che viveva a Budapest, un giorno l’autore si sente rivolgere da lei una proposta di matrimonio. Tuttavia la madre di George non vuole che il figlio sposi una straniera, e con ciò la proposta è rifiutata. “Io, una straniera?”, replica sbalordita la ragazza. “Ma io sono inglese! Lo straniero sei tu. Come è straniera tua madre. Se è così in Inghilterra, non vedo perché non dovrebbe esser lo stesso in Ungheria, nel Borneo o in Venezuela.”
Questo, sul Continente. Nel Regno Unito, invece, lo straniero mantiene una normale condizione di invisibilità, quasi che il fatto di provenire dall’estero fosse fonte di un imbarazzo che il gentleman locale, ignorandone la presenza, educatamente gli risparmia di provare. Ecco il motivo della raffica di “Sorry” che, quando urtiamo gli inglesi per la strada ostinatamente percorsa a destra (quando noi urtiamo loro), ci sentiamo rivolgere: gli isolani, costretti allora a notarci, sono davvero dispiaciuti, ma è un dispiacere ontologico (gli dispiace che non siamo loro, gli dispiace per noi, del nostro dispiacere di non esser loro). Del resto, inglesi non possiamo esser tutti. Se lo fossimo, ci metteremmo in coda e nessuno sfiorerebbe nessuno.
In Inghilterra la nostra condizione di stranieri, anzi di “alieni” come sostiene Mikes, è subito rivelata non appena apriamo bocca. Per quanti sforzi facciamo, anzi quanti più sforzi facciamo, il nostro idioma resterà sempre una spassosa approssimazione al “proper English”, vuoi per la pronuncia, vuoi per la sintassi, vuoi per il lessico. L’unica consolazione è che siamo in buona compagnia: di americani, australiani e altri anglofoni abusivi (in un recente brindisi con i cugini d’Oltreatlantico, la Regina in persona concedeva di sapere che il termine “movie” sta per “film”, benché ostentasse di non esserne certa). Allo stesso modo il nostro “triple”, pronunciato erroneamente “traipol”, lascia stupefatto il teenager del chiosco-gelati che, indeciso se mostrarsi insultato, alla fine si accende una sigaretta non dandoci nulla, e si prepara alla rissa.
Poi, il problema è anche intendere quanto ci viene detto. Chiedere di ripetere non presenta alcuna utilità, così come la preghiera di esprimersi più lentamente. La seconda ripetizione è infatti identica alla prima: semmai più veloce, sommessamente mormorata, con le uniche aggiunte di un “Sorry” iniziale e di un “Never mind” finale. E della nostra faccia da idioti a coronare l’esperimento di “small talk”.
Infine, gli alieni sono riconoscibili perché si lamentano: del fish&chips colante sulle dita, della pioggia gelida, delle raffiche di vento… Ricordo che un’estate, mezzo investito da una specie di uragano sulla torre del castello di Leeds (si trova vicino a Canterbury, sennò sarebbe facile), ho ricevuto una lezione da un ragazzino, redarguito dalla madre per aver detto che sembrava “a bit too windy”. “Stop making such a scene!” sibilò la signora, e il ragazzino volò via senza ulteriori proteste: anche l’understatement, in Inghilterra, può risultare fuori luogo.
N.B.: la psicologia insegna che i sentimenti più intensi sono tutti ambivalenti: i ricordi che precedono sono (anche e soprattutto) una dichiarazione d’amore.
che ho tradotto in inglese!