Progetti e attività

Riflessioni sulla devianza

Scritto da Allievi della 4DS il 14 Giugno 2011.

Riflessioni sulla devianza

LONTANI DAI NOSTRI OCCHI E DALLE NOSTRE VITE di Erica Bolzan

Nel corso degli anni, la condizione dell’ “universo” carcerario italiano è profondamente cambiata.
Dal 1990 il numero dei detenuti è aumentato di oltre il 47%, raggiungendo l’attuale cifra di 65 mila, quando la capienza delle nostre carceri sarebbe solo di 43 mila.
Ciò vuol dire che, per questioni di spazio, i detenuti vivono per anni in celle minuscole e sovraffollate e non possono essere effettuate tutte le attività rieducative e di reinserimento che andrebbero invece assicurate a tutti.
Tra questi 65 mila detenuti sono compresi italiani, stranieri (37%), donne (5%), giovani, anziani che provengono dalle più diverse realtà sociali. Ognuno ha una sua storia, una vita e motivi diversi che li hanno uniti tutti in questo stesso tragico destino.

Questo dimostra che non esiste nessun nesso certo tra criminalità e condizione sociale di provenienza, ma che, in realtà, chiunque è un potenziale criminale, anche se spesso non ce ne rendiamo conto.
È molto diffusa invece, nel senso comune, l’idea che i detenuti siano persone “diverse” da noi “bravi cittadini”. Loro, i “Mostri”, non sarebbero dunque degni di vivere nella nostra giusta e perfetta società, ed è proprio per questo che molti ritengono sia giusto rinchiuderli per sempre in galera, lontani dai nostri occhi e dalle nostre vite.
Questo “senso comune” è alimentato soprattutto dai media, i quali trasmettono senza sosta servizi su fatti di cronaca nera, non solo e non tanto per informare, ma per forse più per appassionare il pubblico alle vicende e per infondere in esso un senso di rabbia e di vendetta tali da tenere incollati i telespettatori al video e aumentare in questo modo gli ascolti.
Anche le Istituzioni non aiutano ad eliminare questi pregiudizi. Credono che spostando gradualmente tutti i penitenziari nelle periferie potranno allontanare e arginare il problema, creando un piccolo universo a sé, lontano dalla nostra civile società e dalla sensibilità dei cittadini. Forse non è ancora chiaro che, limitandosi a spostarlo, non è mai successo che un problema si sia risolto da solo!
Lo stesso concetto vale per i detenuti. Ancora oggi circola l’assurda convinzione che rinchiudendoli per anni in claustrofobiche celle essi possano pentirsi e avere allo stesso tempo la giusta punizione. Oltretutto si ha l’illusione che, senza i “Mostri” in giro, siano garantite sicurezza e serenità per tutti. Credo sia profondamente errato, perché in questo modo non facciamo altro che creare una società sempre più chiusa, frustrata e violenta. Lo dimostrano le statistiche.
Oltre al preoccupante aumento della criminalità, di cui abbiamo parlato in precedenza, è stato infatti dimostrato che circa il 70% dei detenuti che scontano l’intera pena all’interno del carcere torna a commettere reati dopo poco meno di un anno dall’uscita di galera. Ciò dimostra chiaramente come il sistema di detenzione attuale sia inefficace e controproducente. Un vero spreco di risorse e di denaro pubblico.
D'altronde non c’è da stupirsi. Proviamo per un attimo a vestire i panni di un carcerato. E’ costretto a passare ventidue ore al giorno nella stessa misera cella di due metri per tre, insieme ad altri criminali nelle sue stesse condizioni. I discorsi tra loro non potranno che trattare di criminalità e di violenza, visto che sono completamente esclusi dal mondo esterno!
Ciò probabilmente non farà altro che aumentare il senso di frustrazione, di rabbia o magari di rassegnazione, ma non penso aiuti a maturare pentimento! Gli è stata negata l’opportunità di cambiare i suoi orizzonti, la sua visione della realtà e della vita, cosa che avrebbe potuto fare parlando e confrontandosi con persone nuove, persone positive, che avrebbero potuto aiutarlo a ipotizzare nuovi progetti per la sua vita. Cosa pretendere?
Sarebbe potuta diventare una persona diversa, una persona migliore, ma in quel buco forse si sente solo un’ ingiusta vittima di questa “giustizia” che gli ha tolto tutto e soprattutto l’ha privato di un futuro. In lui ora  c’è solo tanta rabbia e rancore che non vede l’ora di scatenare una volta uscito da lì. Tanto, cos’ha da perdere? Nulla.
Da qualche anno, per risolvere questo problema, alcune carceri italiane stanno cercando di applicare nuove tecniche detentive in sostituzione al vecchio sistema; esse sembrano avere risultati eccellenti.
Sono stati inseriti numerosi progetti e attività da svolgere durante la reclusione per impiegare il tempo in modo più produttivo e per dare nuove possibilità di lavoro ai detenuti, così da poter offrire loro un futuro, dopo la scarcerazione.
Ad esempio, in queste particolari carceri, i detenuti hanno la possibilità di imparare un mestiere e ottenere un posto di lavoro all’interno di diverse aziende che cooperano con questa iniziativa. In questo modo essi possono rendersi utili e guadagnare qualche soldo per sperare, una volta usciti di galera, di iniziare una nuova vita.
Ogni settimana vengono organizzate conferenze o dibattiti a cui partecipano sia i detenuti che i cittadini, così da poter avere uno scambio di opinioni e per permettere ad entrambe le parti di capire chi hanno di fronte, senza pregiudizi.
Queste carceri sono attrezzate inoltre di palestre e campi sportivi, di biblioteche e di aule per frequentare corsi scolastici e ottenere diplomi utili per trovare, un giorno, un onesto lavoro.
In questo modo i detenuti possono essere realmente rieducati per la società che li aspetta fuori.
Gli esiti positivi di queste attività sono dimostrati anche dalle statistiche: solo il 9% (rispetto al 70%) di questi carcerati torna a commettere reati al termine della pena.
Questo dimostra che, se questi progetti fossero perfezionati e attuati in tutta Italia, ci sarebbe una notevole diminuzione della criminalità e si creerebbe pian piano una società sempre più civile e sicura.
Il problema è che non ci sono ancora i fondi necessari e l’organizzazione adeguata per creare e finanziare questo tipo di sistema detentivo a livello nazionale. Quindi è necessario informare i cittadini (attraverso la scuola e i media) di ciò che sta accadendo proprio sotto i nostri occhi e cercare di avvicinarci di più a questo “universo “ ancora sconosciuto ma vicino a noi, perché investire nelle carceri significa investire nel nostro futuro e nella nostra sicurezza. Non dimentichiamolo!


UNA PENA RAGIONEVOLE E PROPORZIONATA di Erika Franco

La devianza è un problema rilevante nella società e nella cultura di massa: sempre più tutti noi siamo esposti ad essa ed assistiamo alle violenze più crudeli e particolari. Ciò che dobbiamo fare è sicuramente cercare di prevenire le situazioni a rischio per impedire che questi reati vengano commessi e che la pena venga inflitta.
I devianti spesso sono persone che non hanno avuto i mezzi, oppure la possibilità, di essere compresi e integrati nella società e hanno reagito con la violenza. In ogni caso il concetto di devianza deve essere ben definito in quanto non è  chiaro, anzi,  sembra essere relativo. Un soldato che uccide in guerra può essere visto come un eroe, però se un individuo ne uccide un altro, in una situazione considerata “normale”, allora è un deviante e un assassino: cambia l’interpretazione. La linea che divide ciò che è deviante da ciò che non lo è,  è dunque molto fragile. È dettata dal contesto sociale e istituzionale.
Guardando all’esperienza fatta nell’ambito del “progetto scuola – carcere”, ciò che traspare è sicuramente la certezza che ognuno di noi può diventare un deviante e ritrovarsi a compiere un’azione che non avrebbe mai pensato di compiere.
I detenuti che si sono raccontati hanno messo in luce quelle che, secondo loro, sono le cause dell’atto compiuto. E’ stato interessante vedere come molti di loro non sapessero la causa del loro atto deviante. Un uomo, in particolare, aveva ucciso la moglie e non ne era quasi cosciente quando compì l’atto, in quanto la sua fu una crisi della quale però non si sanno le cause scatenanti.
Durkheim sosteneva che l’assenza di norme, ovvero l’anomia, potesse portare a compiere atti devianti.
Merton invece afferma che il forte desiderio che può avere un individuo di raggiungere il successo può rendere una persona deviante. Merton, quindi, sostiene che se una persona cerca il successo e viene  bloccata, allora cercherà di accedervi con mezzi indiretti: c’è chi usa mezzi come il lavoro per arrivare al successo, che  però può non essere raggiunto. C’è anche chi è disposto a fare tutto per raggiungere i propri scopi e cerca mezzi alternativi. Tra questi individui Merton pone come esempio il rivoluzionario (da: “La scala a cinque punti” di R. K. Merton).
Non sempre però le cause sono da attribuire ad un insuccesso: in alcuni casi sono proprio le situazioni che portano a commettere dei piccoli reati. Se consideriamo la situazione precaria di un uomo che deve mantenere un’intera famiglia ed ha perso il lavoro, ci rendiamo conto che, in questo caso, se egli rubasse, in un certo senso non commetterebbe lo steso reato di chi invece rapina banche per noia o per divertimento. Si deve quindi sempre tener conto del contesto e dell’intera situazione.
In un periodo storico come il nostro, un’influenza particolare è esercitata dalla televisione, che spesso alimenta la paura che possa accadere anche a noi qualcosa di brutto.
Chi viene ucciso è, sempre più spesso, ultimamente, una persona comune; per lo più disponibile e tranquilla: un vicino di casa, un famigliare o un amico. L’assassino invece è una persona normale che nessuno avrebbe mai pensato sarebbe stata in grado di commettere un crimine del genere. Ci vengono mostrati programmi interamente dedicati ai delitti più recenti: puntate che si soffermano sui particolari più macabri, impressionanti ed effimeri. Esperti e psicologi dicono la loro su chi sia il possibile colpevole. I media influenzano la gente che, se è più debole, si abitua a sentire queste cose e a considerarle “normalità”.
La domanda è: “cosa fare per quegli individui che compiono dei reati?”. La soluzione nella nostra società è identificata con il carcere. Venir privati della libertà è il modo più corretto per punire chi ha sbagliato. In questo modo però il problema non si risolve: le carceri continuano ad essere sempre maggiormente affollate e il rischio di avere dei recidivi è molto alto. È necessario che la pena, quindi, sia riabilitativa ed educativa. D’altra parte quante probabilità ci sono che un individuo che è stato in carcere per più di vent’anni possa reintegrarsi nella società, senza difficoltà, ed essere trattato come normale? “La pena dovrebbe significare un percorso di accompagnamento volto all’assunzione delle proprie responsabilità” (da: “La sola strada è prevenire, non reprimere”, 15 – 11 – 1992, La Stampa).
Si può dire quindi “sì” al carcere, ma a un carcere nuovo: un carcere che educhi, che sia attento ai bisogni dei detenuti e alle loro necessità.
Foucault, nella sua opera “Sorvegliare e punire”, scrive che, tra il sedicesimo e il diciannovesimo secolo, sono stati messi a punto nuovi metodi per controllare e rendere docili e utili gli uomini; nuovi metodi per assoggettare i corpi, per manipolare l’uomo e sorvegliarlo. All’inizio dell’opera, Foucault descrive la terribile esecuzione di un certo Damiens,  nel 1757, che aveva commesso un parricidio. Da questo episodio si capisce che l’uomo ha sempre avuto l’esigenza di “uccidere chi ha ucciso”, anche se essa però è sbagliata.
La pena di morte è presente, purtroppo, ancora oggi in alcuni Stati. Essa però non è una reale “soluzione”, perché non dà nessuna possibilità di tornare indietro e, inoltre, non si ha nessuna certezza che la persona che viene uccisa sia veramente colpevole. Se non lo fosse e venisse uccisa, si commetterebbe un grandissimo errore, e questo potrebbe capitare a chiunque, persino a noi. Trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato potrebbe essere una semplice coincidenza dalla quale però non sempre si torna indietro e per la quale si potrebbe  venir erroneamente puniti.
La pena quindi deve essere ragionevole e proporzionata al reato commesso. Il detenuto deve avere la possibilità di mantenere i contatti con l’esterno e con la vita che continua fuori dal carcere. Deve essere aiutato a reintegrarsi, non essere vittima di abusi di potere da parte delle guardie o di chi lavora in carcere, e deve potere, dopo aver scontato la sua pena, avere una vita come gli altri, perché uno sbaglio non deve costare tutta la vita!
Nella famiglia è necessaria una maggior responsabilità genitoriale: ai figli devono essere insegnati i valori e il rispetto per le regole. I ragazzi, inoltre, devono essere maggiormente consapevoli della loro scelta e di ciò che fanno: chi decide di bere oppure di drogarsi deve essere consapevole che non fa del male solo a se stesso, ma mette a rischio anche gli altri. Ciò è importante, perché molti incidenti stradali vengono causati da persone ubriache o sotto l’effetto di droga. La troppa libertà che è stata data negli ultimi anni ha portato a una generazione di giovani confusi che non sanno più cos’è giusto e cos’è sbagliato, e così è aumentata la propensione a commettere crimini e atti devianti.
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  Van Gogh, Ora d'aria in prigione

UNA PROPOSTA: CITTADINANZA ATTIVA di Gaia Boldrin

Oggigiorno i detenuti chiedono più diritti; lo dimostrano le numerose proposte di legge che i deputati presentano al Parlamento.
Ma è giusto che ai carcerati vengano concessi più diritti?
Un uomo è in carcere perché, come scrisse il celebre illuminista Cesare Beccaria, ha violato il patto che esiste tra lo Stato ed ogni singolo uomo, ma nonostante le buone proposte di legge e magari l’aiuto di volontari e di psicologi c’è ancora chi va in galera e ci rimane, praticamente dimenticato, trattato come uno straccio.
Ma perché non ci ricordiamo che molte persone che si trovano in carcere non sono “mostri”, ma sono padri di famiglia, giovani, donne e a volte anziani che, presi da un raptus improvviso, scatenato da chissà quale motivo, compiono atti irrazionali  per cui pagano perdendo la loro libertà?
Ma torniamo un po’ indietro, all’inizio dell’anno scolastico, quando il professore di Scienze sociali ha proposto alla mia classe che ci recassimo alla casa di reclusione “Due palazzi” di Padova nella quale avremmo fatto un’esperienza di stage con i carcerati.
All’inizio l’idea ha subito incuriosito tutti, così, alcuni giorni prima della visita, abbiamo visto dei documenti sulle carceri e poi ci siamo scambiati delle opinioni.
Tutto mi sembrava chiaro, finché non siamo arrivati al carcere. Lì mi sono accorta come vivono i reclusi, spesso abbandonati a loro stessi. Incontrano uno psicologo due ore alla settimana e, come tutte le carceri, anche il carcere di Padova soffre di sovraffollamento e di mancanza di igiene e sanità.
Mi sono resa conto che l’istituto carcerario è una struttura poco conosciuta dai cittadini “liberi”, che genericamente lo ritengono un ambiente destinato a chi commette atti criminali.
Infatti nell’immaginario collettivo il carcere è popolato da persone del tutto diverse e distanti dalla figura del buon cittadino e si pensa prevalentemente che, tutto sommato, i detenuti vivano bene la loro condizione, anzi, che non siano puniti abbastanza.
Poco si sa delle concrete condizioni di vita, delle diverse tipologie di detenuti, e dei tentativi di reinserimento sociale e di rieducazione, spesso negati.
Una fetta di popolazione italiana è sempre più preoccupata del crescere della criminalità e vede nel carcere troppo lassismo e c’è da dire che i mass-media accentuano la disinformazione concentrando le notizie sulle fughe, sulla reiterazione dei reati e sulle scarcerazioni facili.
Risultano così mistificati e deformati i fatti e il senso del carcere stesso.
Secondo me è importante ripartire dal carcere anche per dare risposte innovative al bisogno di sicurezza sociale che emerge nelle varie indagini.
L’insicurezza del mondo oggi non è dovuta ai soli atti criminali, ma anche alla mancanza dei legami di comunità, di vicinato, di classe, di solidarietà, d’identità forti e definite.
Il mondo è cambiato in fretta e di questo cambiamento hanno risentito la società e i suoi abitanti, i quali si trovano schierati in due posizioni, rispetto al carcere: c’è chi sostiene che sia giusto e rieducativo e chi no.
Ma il paradosso del carcere è che ipotizzando poi di reinserire i detenuti nella società li si privi  delle occasioni di socializzazione!
Rieducare una persona non è per niente facile, se calcoliamo che ci si educa sin da bambini, ma si può contribuire alla risocializzazione e al reinserimento del detenuto nella società anche in maniera propositiva, ad esempio rafforzando la cittadinanza attiva.
Inoltre si può contribuire ad una società più sicura e giusta immaginando che il carcere svolga un ruolo sempre meno importante perché via via si affermano alternative comunitarie di gestione della devianza.

LA DEVIANZA di Alessia Camillo

Per devianza si intende il comportamento di una persona o di un gruppo che viola le norme sociali di una collettività e che di conseguenza va incontro a qualche forma di sanzione. Un’azione risulta deviante solo in relazione al contesto culturale e sociale in cui ha luogo, perché un comportamento che viene considerato deviante in un paese può essere considerato molto positivamente in un altro.
Questa è la teoria sociologica secondo cui non esistono azioni cattive e quindi che devono essere punite, ma solo atti che sono illeciti perché proibiti.
La devianza non è buona o cattiva: può essere socialmente utile o pericolosa, ma sempre a seconda delle circostanze in cui ci troviamo. Molte volte può risultare dannosa, ma a volte può essere considerata anche come un prodotto costruttivo del vivere sociale.
La conseguenza per una persona che viola la legge e quindi per il deviante è essenzialmente una: la pena detentiva o carcere. Non sempre però il carcere funziona come dovrebbe. Il suo obiettivo dovrebbe essere quello di accompagnare il detenuto in un percorso di rieducazione e non di repressione; un percorso volto all’assunzione delle proprie responsabilità e alla reintegrazione del danno sociale causato.
Come infatti sostiene don Luigi Ciotti, “bisognerebbe rendere le prigioni luoghi di educazione e non di repressione”, ma ciò può essere messo in pratica solo con una riprogettazione delle carceri. Purtroppo, invece, per varie ragioni in questi ultimi anni le carceri servono solo a rinchiudere in gabbia i detenuti, per cui diventano spesso luoghi di abbandono che rafforzano l’identità negativa del deviante.
Secondo alcune statistiche, è risultato che le carceri oggi sono sovraffollate e ciò causa inevitabilmente una permanenza disumana nelle celle. Grazie a numerose indagini svolte nelle prigioni si è verificato che una cella che dovrebbe contenere massimo tre carcerati, al giorno d’oggi ne contiene sei. La condizione in cui i detenuti si trovano una volta entrati in queste carceri non li aiuta certamente a rivalutare la loro situazione e ad assumersi le loro responsabilità!
Le domande che molti sociologi si pongono sono, ad esempio, perché la maggior parte delle persone non commette reati e cosa invece spinge una piccola parte di popolazione ad essere deviante. Per rispondere alla prima domanda, alcuni sociologi hanno sviluppato la “teoria del controllo sociale”, la quale si basa su una concezione pessimistica della natura umana, che viene considerata moralmente debole. Questa ipotesi sostiene che il genere umano, seguendo i propri desideri e il proprio istinto, è portato più a violare che a rispettare le leggi.
Questa teoria si preoccupa anche di definire la motivazione del perché la maggior parte degli individui non commette reati. I sociologi rispondono a questo quesito fornendo quattro diverse motivazioni: l’attaccamento alla famiglia, l’impegno nel perseguimento degli obbiettivi prefissi, il coinvolgimento nelle attività ritenute socialmente normali e le credenze. Per esempio, una persona, seguendo la fede, potrebbe decidere di non uccidere o di non rubare perché la Chiesa, con i dieci comandamenti, invita i credenti a non farlo.
Questo non vuol certo dire che chi commette reati non abbia credenze o che non provi un forte attaccamento ala famiglia e alla società in cui vive; significa solo che la devianza si apprende solitamente dall’ambiente sociale in cui si vive.
A volte accade che una persona commetta un reato perché si è formata in una cultura criminale, che ha norme e valori diversi da quelli della società generale e che vengono trasmessi da una società all’altra. Questa teoria è definita “teoria della subcultura”. Però, se facciamo caso alle notizie di cronaca nera che compaiono nei quotidiani, possiamo verificare che, molto spesso, gli omicidi più efferati vengono commessi da gente normale, con famiglia e figli a carico. Questo vuol dire che il comportamento deviante non è ereditario e nemmeno inventato dal deviante, ma viene appreso attraverso la comunicazione con gli altri. Ad essere deviante non è quindi l’individuo, bensì il gruppo a cui egli appartiene.
La pena carceraria dovrebbe avere il compito di rieducare i detenuti, ma serve a poco se si pensa che, una volta uscito dal carcere, il detenuto si troverà in una società che lo guarderà con occhi diversi e sarà quindi difficile per lui ricominciare da capo per rifarsi una vita lontana dai pregiudizi.
Fra le persone che commettono atti devianti e fra coloro che non li commettono non c’è una sostanziale differenza dal punto di vista dei valori, perché un conto è commettere un atto deviante, un altro è suscitare una reazione sociale a causa di questo atto.
La detenzione in carcere, al giorno d’oggi è quasi completamente inutile. Come sosteneva Michel Focault, storico e filosofo francese, la prigione è diventata, ormai, una forma usata dalle discipline e può ritrovarsi anche nelle scuola, negli ospedali e nelle caserme. È quindi un contesto sociale negativo che non ha assolutamente lo scopo di rieducare.
Credo abbia ragione don Luigi Ciotti. “La sola strada è prevenire, non reprimere”.

PER UNA VITA MIGLIORE di Gorgato

Tv, giornali e radio ci informano quotidianamente riguardo omicidi, rapine, suicidi e vari atti devianti accaduti qualche ora prima. L'interesse pubblico è elevato quando si sente del marito che ha sterminato la famiglia, o del direttore di banca che, dati i troppi debiti, si suicida nel suo ufficio e viene trovato dalla segretaria. Conseguenza di un atto deviante è il carcere, istituzione nata per riformare i detenuti.
Ci sono vari dibattiti riguardo la pena da scontare: secondo parte dell'opinione pubblica e molti esperti il carcere non riforma i detenuti, li reprime con la violenza o tenendoli in celle strette che non rispettano la dignità di ogni uomo. Il carcere è diventato ormai un luogo in cui non vengono rispettati gli uomini; i loro diritti è come se svanissero appena mettono piede in quei lager formalizzati. Le persone che si ritengono “normali”, e quindi non devianti, etichettano queste persone come pazze, malate, con problemi.
Non vengono analizzate le cause per cui un uomo ha compiuto un certo atto deviante; lo si etichetta subito e lo si esclude dalla società perché “moralmente deviante”.
Siamo tutti esseri umani e possiamo tutti commettere degli sbagli.
La società, che dovrebbe essere il frutto di un insieme di norme che consentono una vita corretta e giusta, ha il ruolo di indirizzare i cittadini sulla “retta via”, ovvero far loro seguire le norme.
Purtroppo la società non ha questo grande dono e bisogna ricorrere ad altri metodi, come ad esempio suscitare negli individui l'idea della pena carceraria come un'idea sbagliata di percorrere la vita, e cercare quindi di seguire una via legale e giusta.
Procurare i soldi facilmente, farsi giustizia da sé, vivere nel lusso rubando agli altri sono tutte idee che possono passare per la testa di un qualsiasi individuo.
Ecco la funzione del carcere: in un certo senso deve fare il lavaggio del cervello ai detenuti, riformarli e prepararli a una nuova vita al di fuori del carcere.
Il problema del carcere di oggi è che non tratta i detenuti da esseri umani; a volte vengono picchiati dal personale, le celle non rispettano gli standard stabiliti dalla legge e i detenuti perdono contatti con l'ambiente esterno. E’ un fattore negativo, in quanto, appena usciti di prigione, un minimo di contatto con il mondo esterno lo devono avere, altrimenti lo stato di confusione, di novità e il fatto di essere spaesati li porterà inevitabilmente a compiere di nuovo gli stessi errori che li hanno portati in prigione.
Analizzando la situazione odierna, notiamo che il mondo di oggi è corrotto (ad esempio il mondo del calcio) come lo è il carcere, o come può essere, a volte, la scuola o ogni altra istituzione. La colpa quindi non va a nessuno in particolare; solamente al degrado morale che ci sovrasta.
Il carcere non ha colpa se gli ex detenuti tornano a compiere atti devianti, la famiglia non ha colpa se un membro ucciderà qualcuno; tutti abbiamo colpa, ma non per questo vengono giustificati gli atti devianti. Una persona deve essere consapevole di ciò che fa, deve sapere a cosa va incontro e soprattutto deve ammettere i propri errori. Il compito della società è di informare tutti i cittadini di quanto sia sbagliato violare le norme sociali, mentre il carcere dovrebbe impegnarsi al massimo per poter rieducare i detenuti e garantire una vita migliore a loro e a tutti i cittadini.

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