Ma misi me per l'alto mare aperto
Scritto da Luisella Saro e testi di studenti della 3BL il 30 Maggio 2011.

“Ah, il Grande Molo da cui partimmo in Navi-Nazioni!
Il Grande Molo Anteriore, eterno e divino!
Di quale porto, in quali acque? E perché penso a questo?
Grande Molo come gli altri moli, ma l’Unico. (…)
Oh, fughe continue, partenze, ebbrezze del Diverso!
Anima eterna dei naviganti e delle navigazioni”.
(ÁLVARO DE CAMPOS-FERNANDO PESSOA, Ode marittima)
E’ pensando a questa “anima eterna dei naviganti e delle navigazioni” che è nato questo lavoro. Pensando a questo e riflettendo sul bel saggio che lo scrittore Davide Rondoni provocatoriamente ha intitolato “Contro la letteratura. Poeti e scrittori una strage quotidiana a scuola”. Sì, perché ha ragione Rondoni, quando scrive che “è alle superiori che i nostri giovani tremendi e magnifici incontrano veramente la letteratura cominciando a maturare più coscientemente le domande, le inquietudini, le questioni che li accomunano a quanto emerge nelle opere. E’ alle superiori che si dice: mi interessa. Oppure: bleah!”. E così, ancora una volta, ho accettato la sfida. La sfida del viaggio. “Ah, il Grande Molo da cui partimmo…”. E, come l’Ulisse dantesco (lui con i suoi “frati”, i suoi compagni, ed io con i miei studenti), “misi me per l’alto mare aperto”.
Ho lavorato con i ragazzi di terza sul XXVI canto dell’Inferno; con loro ho incontrato Ulisse e insieme abbiamo cercato di conoscerlo e di comprenderlo. Non paghi, siamo andati alla ricerca di “altri” Ulisse, raccontati da “altri” scrittori. Abbiamo conosciuto il πολύτροπος Ulisse di Omero: l’eroe dai molti volti; e poi l’Ulisse di Foscolo, di Pascoli, di D’Annunzio, di Tennyson, di Saba, di Primo Levi, di Joyce; e del poeta greco Konstantin Kavafis…
“E si leggono libri come si stanno ad ascoltare gli amici”, scriveva Herman Hesse. Aveva ragione. Perché in questi “amici” incontrati nei libri, ed ascoltati, ciascuno dei ragazzi ha colto alcuni tratti che gli corrispondevano ed altri meno, o per nulla. Come accade nelle amicizie più vere.
Da ogni lettura è nato un incontro e un confronto: con il personaggio narrato, con l’autore del testo, tra gli studenti, tra gli studenti e l’insegnante…e poi, chissà, magari anche a casa. O con gli amici.
Accade così ogni volta, perché insegnare letteratura vuol dire essere sempre disposti a correre un rischio. Proprio come quando si decide di andar per mare.
E così come l’Ulisse dantesco, spinto dallo stesso “ardor / (…) a divenir del mondo esperto / e de li vizi umani e del valore”, ogni studente ha provato a raccontare il “suo” Ulisse, dimostrandoci ancora una volta che il cuore dell’uomo mai si rassegna ad essere meno di un abisso.
Scrive Jorge Luis Borges, riflettendo sul canto XXVI: “A cosa deve la sua forza tragica questo episodio? Credo che l’unica spiegazione sia questa: Dante sentì che Ulisse, in qualche modo, era lui stesso”.
“Era lui stesso”, perché, in fondo, Ulisse è…ciascuno di noi.
"Meravigliosamente Ulisse" di Anna Marsonetto, 3BL
“Una maglia maniche corte rossa, un paio di pantaloni verde militare, uno zaino con dentro qualche bottiglia d'acqua, pane, un po' di frutti. Una tenda da accampamento, la sabbia, il vento...ed io. Questa è la mia storia. Sono un uomo di 32 anni e mi chiamo Ulisse. Sono molto conosciuto nel mio Paese, l'Italia: è lì che sono nato, che sono cresciuto; è lì che la gente ha cominciato ad apprezzare le mie canzoni, le mie parole e il mio modo di vedere la vita. Amo la musica, amo cantare, amo infinitamente la mia famiglia: mia moglie, mia figlia, i miei genitori e i miei fratelli; amo la mia terra, amo il mondo...e amo viaggiare. Ed è proprio da qui che inizio il mio racconto.
Sono venuto da solo nel deserto. Non importa quale deserto; è un deserto. Mi manca la mia famiglia, ma quest'avventura l'ho fortemente voluta, perché sono convinto che arrivare da solo, quaggiù, è un'esperienza di vita che mi fa crescere come padre, come marito, come figlio, come amico; ma sono anche convinto che arrivando da solo, quaggiù, riuscirò a conoscere me stesso, il vero Ulisse. La mia piccola tenda è vicina ad un accampamento di nomadi: una famigliola con tre o quattro figli e qualche animale. Mi hanno invitato a mangiare con loro anche se non parliamo la stessa lingua: io so qualche parola in tedesco, abbastanza bene l'inglese, un po’il francese e lo spagnolo, ma non conosco nulla della lingua del deserto… Ci capiamo a gesti. Sono persone simpatiche e, nonostante il silenzio di questa tenda, mi sembra di essere a casa, perché sento un'atmosfera calda, familiare... Mangiamo un po' di brodaglia con della carne, qualche pezzo di pane, poi li ringrazio di cuore e me ne torno alla mia tenda.
Qui di notte fa molto freddo: devi coprirti bene, altrimenti geli; alla mattina invece ti sveglia un caldo soffocante. C'è molto vento. La tenda si muove impetuosamente, ma non ho paura. Entro nel sacco a pelo, mi avvolgo con due coperte, accendo la pila ma subito dopo a spengo: preferisco guardare il mondo dalla piccola finestra del mio rifugio. Non potete immaginare cos'è il cielo visto da una tenda nel deserto! No, non lo potete immaginare! Prendete un cielo d'agosto con tanto di stelle cadenti e moltiplicatelo per un milione. Ecco, forse così ci si avvicina. Mi sembra persino di toccarlo, questo cielo infinito. E' un abbraccio! Mi dà l'idea di essere al sicuro, di essere a casa.
Mi sveglio molto presto ed esco. Mi sembra di essere in un film: di fronte a me un oceano di sabbia, dune, molte dune, una leggera brezza che mi accarezza e un'alba strepitosa. Mi manca la mia famiglia, vorrei che Selene e la mia piccola Dafne fossero qui, per ammirare assieme a me questa meravigliosa palla infuocata che dipinge il cielo di un arancione giallastro. E' un capolavoro di Dio! Non ho portato la macchina fotografica: voglio che tutti i paesaggi sperduti, che ogni dettaglio che ho visto e che vedrò rimangano solo un bel ricordo dentro il mio cuore. Guardo a terra. Vedo un sasso bucherellato che mi piace un sacco e lo metto in tasca. Ho deciso che in ogni posto che visiterò ne raccoglierò uno.
Mi siedo e rifletto. Una settimana fa ero con la mia famiglia, cinque giorni fa ero in viaggio per l'Africa e ora sono qui, in questo paradiso così incredibilmente bello; domani partirò per l'Armenia, la Mongolia, l'India, la Cina o chissà per dove...magari per la Patagonia. Mi piacerebbe andarci, lì, un giorno…
Trascorre velocemente la mattinata e io sono ancora qui seduto. Scrivo. Un po' sul mio diario di bordo, un po' sul quaderno dei testi musicali. Voglio scrivere una canzone sull'Africa, voglio scrivere una canzone sulla Terra e voglio scrivere una canzone sull'amore. Voglio scrivere per dimostrare al mondo quanto sia meravigliosamente bella la vita.
Non ci sono stati eventi particolari, oggi. E’ arrivata sera e domani partirò per un'altra meta. Partirò per arrivare fino alla parte più profonda del mio cuore per scoprire chi sono... Non ci sono stati eventi particolari, oggi, e proprio da questo ho capito che per rendere speciale una giornata non servono grandi cose; bastano un deserto, una tenda, una cena in compagnia di persone che non parlano nemmeno la tua lingua, un cielo stellato e magari un'alba e un sole strepitosamente bello.
Sono felice e ringrazio il Cielo, perché fra un mese tornerò dalla mia famiglia migliore di prima. Con le tasche piene di sassi e il cuore colmo di ricordi che non mi abbandoneranno più. E gratitudine, perché la vita è un viaggio meraviglioso.
"Ora che non solo il cielo ci sovrasta" di Ilaria Masolin, 3BL
Le acque lambiscono i nostri corpi, la nostra nave, i nostri cuori e non possiamo fare ormai nulla se non affondare lentamente nel nero delle acque. Quelle acque che ora inzuppano i miei vestiti, rendendoli una zavorra pesante di cui è impossibile liberarmi, anche volendo, per raggiungere l’alto, l’aria, il cielo, la vita. Quelle acque che mi offuscano – ci offuscano – la vista, tendendo un velo impalpabile di fronte ai nostri occhi, un velo che brucia fino nell’anima. Quelle acque che ora vincono le nostre labbra e che entrano indomabili nel nostro petto, estinguendo il respiro sul nascere. Quelle acque che sono state vita, passione, gioia; la nostra casa accogliente per tanti anni.
Ora la casa crolla contro i nostri corpi, schiacciandoci, annullandoci nel buio.
All’ultimo vedo te, mio capitano, che affondi lentamente insieme a me, misero marinaio.
Come può toccarti la stessa mia sorte; toccare anche a te, re delle acque?
Come possono esse farti questo torto, beffarde, avviluppando tutto ciò che hai amato?
Perché non ti cedono il passo, inchinandosi al passaggio della tua nobile nave, come ogni suddito di fronte al suo sovrano? Queste acque che sono il tuo popolo, il tuo regno, le tue amanti?
Eppure la Morte oramai vicina non scalfisce nessun angolo del tuo vecchio viso:
la stessa serenità del giorno precedente, dei minuti precedenti alla disfatta; la stessa tenacia, la stessa bramosia di vedere, toccare, sentire, odorare, gustare; la stessa voglia di vita…
Ma come puoi ancora desiderare la vita, ora che l’annullamento di ogni senso si avvicina, inesorabile, e lo sento, manca un passo, solo un passo alla fine di tutto?
Di te non rimarrà altro che il viso rugoso come la corteccia di un albero di mille anni, cullato dal mare sereno e ad occhi chiusi, quegli occhi dove non si potrà scorgere più la scintilla dell’ardore che li illuminava.
Perché? Perché tutto questo?
Lo chiedo a te, mio capitano; a te che dicevi che le acque ci erano amiche, un mezzo placido che potevano trasportarci verso ogni luogo, se solo avevamo il desiderio di raggiungerlo.
E dicevi che se si infuriavano era una nostra mancanza, una nostra colpa: increspandosi indicavano il nostro sbaglio, la via errata, riconducendoci verso la meta che il destino aveva predisposto per noi.
Ma ora, che colpa abbiamo commesso? Qual è, ora, la nostra meta? Le braccia della Morte nefasta?
L’attimo ormai è arrivato. Per me, per te, per tutti i compagni.
E scivolo lentamente nel nulla; il tuo viso scolpito come ultima immagine nelle mie pupille brucianti.
Forse non avrò mai risposta…
Mio compagno, la sorte di noi tutti ormai è segnata. E’ decisa, è certa, e la certezza – anche se della morte – è migliore di qualsiasi altra labile possibilità. Se sono il sovrano, allora è bene che io muoia tra le braccia del mio popolo, insieme a voi, miei compagni, piuttosto che tra quelle del nemico, che, avido, berrebbe della mia fama, delle mie virtù, della mia conoscenza. Come vedi non ho paura. Non c’è nulla da temere: stiamo seguendo la nuova rotta che le acque ci indicano, e anche se questa punta verso il nero delle loro profondità, noi la seguiremo. Abbiamo mai abbandonato la speranza, anche quando brancolavamo nel buio, anche quando la vita ci riservava cibi muffiti su piatti d’oro, o quando tutto, a partire dal destino, si muoveva contro di noi? No, la speranza ha sempre riscaldato i nostri cuori afflitti da mille e mille pene, ha sempre corso lungo le nostre vene irradiando l’intero nostro corpo della forza che ci ha portati sin qui. Perché mai dovremmo perdere quella forza ora che la vita ci offre un nuovo percorso, una nuova meta, una nuova esperienza? È la nostra nuova e ultima avventura e dobbiamo accoglierla così come ci viene servita. Potrebbe essere diverso oggi: potrebbe essere il piatto sporco su cui viene servito un cibo prelibatissimo, divino. Rifiuteresti un’ offerta simile, rifiuteresti di allargare i tuoi orizzonti della conoscenza solo perché quel piatto viene offerto da mani che ancora non conosci? Anche la Morte, ormai, è nostra amica. Rifletti, ragiona, non farti annegare dallo sconforto, ma solo dalle acque sorelle, che ci avvicinano alla sapienza, alla scoperta ultima.
Sarai ancora con me, con i tuoi compagni? Lascerai che la speranza si diffonda ancora grazie all’ultimo battito del tuo cuore? Come vedi io sono sereno. Le rughe che scorrono sul mio viso non sono frutto della sofferenza o della disperazione, e con questa avventura ne guadagnerò altre. Sono il mio bottino, la mia fortuna, il vero Ulisse che non si arrende di fronte a nulla, nemmeno quando non è solo il cielo a sovrastarlo, ma anche il mare, nostro fratello. E le conto, orgoglioso; le guardo e me ne compiaccio, se mi viene permessa questa piccola vanità… Sono solo un uomo, un povero uomo nelle mani del destino. Reagiamo, compagno e fratello; non facciamoci cogliere intorpiditi, perché ci viene offerta un’unica possibilità. Non si può tornare indietro.
Anche i miei occhi bruciano, così come i polmoni che lentamente vengono riempiti dall’acqua, che prende il posto alla vita. Ma guardami, volgi il tuo sguardo velato verso il mio, se non è troppo tardi. Sto scendendo con te: il capitano con il suo marinaio. Come sempre, da che insieme siamo partiti. Come in ogni altra avventura che la vita ci ha riservato.
"Pensieri di un eroe, morte di un uomo" di Laura Scarpa, 3BL
Tuoni e saette si scagliavano sul mare burrascoso, mentre un’altra potente onda divorava la prua inondando completamente il ponte della nave. I marinai sbraitavano e imprecavano. Non si era mai visto tanto terrore nei loro occhi! Le urla disperate invocavano la pietà di Zeus e allo stesso tempo maledicevano tutte le altre divinità dell’Olimpo. Solo uno sguardo era rimasto impassibile; imperterrito fissava l’ombra del monte distante solo qualche miglia. I muscoli sempre tesi e ben definiti, i capelli ormai ingrigiti e il volto solcato da profonde rughe raccontavano la sua storia: la storia di un uomo dalle mille avventure. Un uomo scaltro, forte. Un Eroe. Lo sguardo non era cambiato: quegli occhi profondi erano gli stessi che avevano assistito alla distruzione della grande Troia.
Cloto allungò la mano per srotolare dal fuso un nuovo filo, una nuova nascita, un gemito, un pianto che per nove mesi aveva mantenuto il silenzio nel grembo materno.
“Ulisse!”, esclamò uno dei marinai avvicinandosi all’uomo. “Dimmi…”, rispose lui. Con voce tremante il marinaio pose la domanda: “Sarà questa la fine? L’ultimo viaggio?”. L‘Eroe si voltò e guardò il vecchio accanto a lui: “Compagno mio, amato fratello, tu, come gli altri, per tutti questi anni mi siete sempre stati fedeli e riconoscenti; meritereste di tornare dalle vostre mogli, dai vostri figli, ma il destino purtroppo sfugge al mio controllo. Non sono nient’altro che un uomo; un uomo come te. Non ho potere. La morte avrebbe potuto raggiungerci molti anni fa, ieri oppure arrivare domani, ma il fato ha scelto così: ha scelto di farci trovare il nostro tesoro, di farcelo vedere, di farci arrivare a un passo da esso e poi di farci inghiottire dal mare. Sì, il viaggio è concluso”. La sua nave stava subendo la furia del mare e sarebbe affondata. L’Eroe ne era consapevole.
“La conoscenza, che tanto mi aveva ossessionato tenendomi sveglio intere notti, stava a un giorno di navigazione, un solo giorno. Perché, Ulisse? Perché non ti bastava aver superato il limite, aver ascoltato il proibito canto delle sirene, conosciuto Circe, combattuto contro il Ciclope e aver scoperto alcuni dei segreti nascosti all’umanità? Cos’ era che da anni ti spingeva verso l’ignoto? Ancora migliaia di domande tormentavano la mia mente… Laggiù c’erano tutte le risposte e io non le avrei mai raggiunte. Volevo la conoscenza. Ciò che più desideravo avere, in quel momento, era il sapere e per averlo sarei stato capace di fare qualsiasi cosa. L’acqua mi accarezzava il volto cullandomi dolcemente; sarei riuscito a trovare pace, a dormire finalmente sogni tranquilli”.
Lachesi intrecciava pazientemente. Una storia unita a un’altra, altri fili che si separano, vite che s’incontrano senza più mollarsi. È il corso della vita. E’ il fato.
Ormai l’imbarcazione stava per scomparire nelle profondità marine. Le urla erano quasi del tutto cessate. Il cielo aveva smesso di tuonare, pareva quasi in rispettoso silenzio.
“La mia amata nave, da molti anni la mia casa, era ormai distrutta. Avrei tanto voluto riuscire a reprimere i ricordi. Lei, fidata compagna di mille avventure; lei, che come me aveva forse sperato nel successo dell’ultima impresa… No, quella barca era solo legno, materia inanimata; doveva servire solo a raggiungere quel monte, a raggiungere la Verità”.
Numerosi erano i fili che quella sera Atropo aveva deciso di tagliare. Vite spezzate, cadaveri di marinai oltre le colonne d’Ercole. “Il desiderio di conoscenza mi tormentava ancora. Negli ultimi istanti della mia intensa vita mi ponevo un’altra domanda: se fossi riuscito a raggiungere il monte, svelando così nuovi misteri, avrei posto la parola fine concludendo il mio viaggio, oppure mi sarei perso nella speranza di una nuova scoperta? La mia vista era quasi del tutto annebbiata; riuscivo a scorgere solo le ombre dei corpi che come me stavano per raggiungere la loro tomba”.
Non c’era più nave, non c’era più equipaggio, non c’era più alcun Eroe. La violenza della tempesta aveva deciso di non risparmiare nessuno: l’implacabile mare li aveva presi tutti e aveva deciso di tenerli con sé nelle profondità dei suoi fondali.
Le due moire si girarono, fissando la sorella. Un unico filo rimaneva da tagliare e Atropo lo fissava incantata.
“Itaca. Mentre sentivo le forze abbandonarmi e il sospiro pesante della morte sul collo, mi rimaneva un unico dolce pensiero: Itaca. È strano come tutto ciò che fino a qualche secondo prima ritenevo fosse la cosa più importante al mondo, risultava essere così futile davanti alla terra che avevo abbandonato in cerca di nuove verità. Penelope, mia amata Penelope, perdonami…”.
La forbice tranciò con un taglio netto il filo e il corpo, come gli altri, si perse nel buio degli abissi marini.
"Guardare e ascoltare una volta, una volta soltanto..." di Samassa Beatrice, 3BL
Sopravvissuto dopo quel lungo viaggio, i ricordi durante la notte si fanno mille e si affrontano nella mia mente come eroi impavidi. Tra tutti, riaffiora sempre la figura di quelle strane creature marine, metà donne e metà pesci, la cui voce ascoltò solamente il nostro capitano, Ulisse.
I suoi occhi ammaliati raccontavano ciò che provava. Si dimenava, cercando di snodare la cima con cui, obbedendo, l’avevamo legato all’albero della nave, così che potesse, lui solo, ascoltare la voce delle Sirene, senza cadere nel loro tranello. Lo scopo di quelle perfide creature era fare in modo che la nostra nave si fracassasse, si schiantasse contro gli scogli su cui loro, sedute come regine, cantavano e incantavano i marinai.
La loro voce, ci aveva poi raccontato Ulisse, aveva toni splendidi, indescrivibili. Noialtri, invece, noi marinai che avevamo deciso di accompagnarlo in questo lungo viaggio, ci eravamo tappati le orecchie, sotto suo ordine, con la cera. Ricordo che quando le Sirene erano sparite sott’acqua, Ulisse, stupito, si era guardato attorno, come se fino a quel momento non fosse stato lì con noi, ma altrove. Poi era “tornato”. Si ritrovava qui, legato, e pareva non sapesse perché.
D’istinto aveva abbassato lo sguardo verso le sue braccia sanguinanti. La cima, ruvida, si era sfregata sulla sua pelle arsa dal sole, tanto da provocargli dei tagli abbastanza profondi da farlo sanguinare. Guardando le espressioni incredule di Ulisse, avevo pensato che le Sirene stessero ancora cantando. La curiosità mi struggeva. Volevo liberare le orecchie e alzarmi di scatto. Guardare ed ascoltare le Sirene una volta, una volta soltanto e poi riposizionarmi. Ma non potevo.
Non avrei mai potuto disobbedire ad Ulisse! Non era lo spavento a fermarmi, no. La sua autorevolezza e ciò che fino ad allora era stato in grado di fare dicevano al mio cuore che dovevo obbedirgli. E seguire lui solo. Così ho fatto. Ero rimasto, allora, accucciato ad osservarlo. Girava gli occhi, sembrava svenisse. Poi si riprendeva e si dimenava ancora sforzando le cime. Dopo vari tentativi di slegarsi, si era fermato. Aveva chiuso gli occhi qualche istante e poi, tornato lucido, mi aveva guardato. Solo a quel punto avevo capito che era giunto il momento di alzarmi e slegarlo…
Dopo quell’episodio, il ricordo delle Sirene mi ha sempre ossessionato. La mia mente fantastica e si spinge sempre oltre i limiti della ragione, per cercare in tutti i modi di poter immaginare il suono di quelle voci che Ulisse descrive con mille aggettivi: soavi, splendide, armoniose, fantastiche…
Nessuno di questi aggettivi mi ha mai soddisfatto completamente e continuerò a tenere la mia mente occupata da questo ossessionante pensiero pur sapendo che forse non troverò mai una risposta. A volte mi chiedo se sia questa, in fondo, la risposta che voglio davvero… Il desiderio del cuore spinge l’uomo a cercare “qualcosa”; qualcosa che crede di aver perso, che sente che gli manca, che sa che sazierebbe la sete che lo arde. Ma spesso, alla fine, si accorge di aver perso ore, minuti, secondi; o giorni, mesi, anni, a rincorrere qualcosa di vano, di inutile… E che doveva volgere lo sguardo altrove…
"La mia Itaca è ancora lontana, ma non smetterò di cercarla." di Benedetta Carnio, 3BL
Mi sono come te dispersa. Tornavo vittoriosa da una lunga battaglia, ma gli dei vollero mettermi ulteriormente alla prova. La via di ritorno venne così dirottata e approdai in un'isola deserta, che sembrava apparentemente normale. In realtà dietro alla fitta vegetazione s'ergeva una maestosa dimora dove viveva Hermes, il dio dell'inganno. Egli, con l'aiuto di Afrodite, mi fece infatuare di lui, come successe a te con donne incontrate lungo il tuo peregrinare.
Hermes si mostrò fin da subito dolce e premuroso. Era un bravo oratore, riuscì infatti a farmi cadere nel suo tranello usando questa sua abile dote: aveva una voce soave; mi ripeteva dolci frasi mentre i suoi grandi e chiari occhi fissavano i miei. Venni travolta così in un vortice amoroso fasullo. Più roteavo, più la mia passione aumentava e il mio desiderio di rimanere lì con lui si faceva ardente. Ma tutto ciò era destinato a finire. Mi ritrovai un giorno nuovamente sulla riva del mare, da sola. Non sapevo che fare, non trovavo i miei compagni. Ero confusa, non riuscivo a capire il motivo per cui mi aveva lasciata.
Vagai per giorni e giorni su e giù per la riva, alla ricerca dei miei amici. Non riuscivo a trovarli e la depressione si impadroniva di me. Capii che stavo camminando a vuoto, senza uno scopo preciso, poiché la mia mente era ancora offuscata: non pensavo ad altro che a lui, e mi convinsi sempre più che la colpa era stata mia, che ero io la causa della nostra separazione. Decisi di smettere di camminare. Mi sedetti in uno scoglio e con i piedi immersi nella fredda acqua salata iniziai a piangere, liberando tutte le mie emozioni.
Piansi a lungo, finché non ritrovai le forze per rialzarmi e convincermi d'essere una persona tenace e forte, e che come te, la mia Itaca dovevo ritrovare. Il viaggio era ancora lungo, quindi non persi tempo. Iniziai a cercare instancabilmente i miei compagni. Erano lì, dove li avevo lasciati l'ultima volta. Mi avevano aspettato per tutto il tempo, e quando mi videro corsero da me per aiutarmi e consolarmi, spiegandomi che ciò che era successo era una prova. La mia Itaca è ancora lontana, ma non smetterò di cercarla.
"Guarda e impara!" di Rachele Musso, 3BL
Pochissimo tempo fa ero a Bamberga con la mia classe, altri ragazzi e alcune insegnanti.
Oggi sono a casa e già ripenso con nostalgia a quei giorni che sembrano ieri, che eppure
sono già così lontani.
Tornerei subito in Germania, se solo potessi. In realtà, ad essere sincera, in questo momento
partirei per qualsiasi destinazione: spirito d’adattamento e curiosità, uniche cose
indispensabili.
Perché durante il viaggio tutto quello che accade, un po’ come nella vita, insegna qualcosa:
è normale che capitino delle (dis)avventure, ma l’importante è riuscire a trovare una
soluzione, per fare in modo che il resto del soggiorno non venga rovinato da dei normali
imprevisti.
È bello visitare posti nuovi con gli occhi della curiosità, perché fondamentalmente è questo
il segreto per vivere felicemente.
Durante un viaggio ci si diverte, ci si annoia anche, ma, soprattutto, si conosce e ci si
conosce. Noi, come dei moderni Ulisse, abbiamo saputo uscire vincitori dalle situazioni più
imbarazzanti, più inconsuete e perfino più traumatiche. Abbiamo capito quali erano i
momenti adatti al divertimento
e quando, invece, l’unica cosa da fare era rimanere in religioso silenzio ad ascoltare e ad
osservare per imparare.
Durante un viaggio si conoscono persone nuove, con nuove abitudini e nuovi modi di
comportarsi, ma il bello è che, pur essendo apparentemente così differenti e lontani, tutti
siamo in grado di stringere amicizia con degli sconosciuti che vivono le loro vite a migliaia
di chilometri da noi e che, tutto sommato, non hanno nulla di strano, pur essendo così
“diversi”.
Durante un viaggio senti un po’ la nostalgia di casa e della routine quotidiana, ma quanto
non è piacevole tornare e riabbracciare tutti e tutto quello che di bello si era lasciato?
Una volta tornati alla propria normalità ci si sente sempre un po’ più ricchi: di esperienze,
di informazioni, di conoscenti e di bei ricordi.
Anche Ulisse viaggiò molto… Deve averne imparate, di cose!
"Un piccolo germoglio. Il più prezioso di tutti i tesori." di Linda Diamante, 3BL
Emanuele sedeva davanti a noi sull’asfalto, le gambe magre e lunghe incrociate, come tutte le sere. Non aveva una famiglia a cui chiedere il permesso per stare lì, e noi lo invidiavamo, perché dovevamo stare attenti a non bucare i pantaloni nuovi, a non consumare le scarpe da ginnastica belle, bianche e pulite, a non sporcare la maglietta appena comprata. Noi invidiavamo il bambino che aveva perso tutto, perché lui aveva conosciuto ciò che noi non avremmo più potuto avere. La canottiera sporca e le scarpe da tennis troppo grandi incorniciavano il suo corpo esile dandogli un’aria ridicola, ma aveva il rispetto e la completa attenzione di noi due che, a bocca aperta, lo ascoltavamo seduti sul bordo del marciapiede, mentre ci raccontava di Ulisse. Era vecchio e aveva la faccia rugosa - ci spiegava Emanuele. Tutti avevano timore di lui, ma era gentile, Ulisse.
Emanuele aveva potuto andare giù alla baia dei pescatori con lui e osservarlo muovere le sue mani senza tempo, mentre preparava le reti da buttare sulla barca. Aveva potuto farlo, perché era più grande di noi, perché era già nato, quando Ulisselavorava laggiù alla capanna. Per tutta l’estate Emanuele, come ci aveva raccontato mille volte, correva a perdifiato con i piedi nudi sull’asfalto rovente, fino alla capanna di Ulisse. Il vecchio lo aspettava sempre, silenzioso, e sorridendogli gli faceva cenno di sedersi sulla seggiolina di paglia che aveva preparato apposta per lui. Allora il bambino si sedeva e, con lo sguardo sognante, ascoltava le storie di quell’uomo, che sembravano uscite da un romanzo d’avventura, come quelli che leggevamo a scuola con la maestra.
Ulisse camminava avanti e indietro, con gli occhi fissi in un punto lontano a guardare chissà quali mondi sperduti e dimenticati; raccontava storie di posti meravigliosi, di tesori inestimabili, di grossi velieri e di un uomo solo, valoroso e ingegnoso, che aveva voluto sfidare le leggi imposte dalla natura e dagli dei. Emanuele ascoltava e imparava tutto, in rispettoso silenzio. L’uomo rivedeva negli occhi del bambino lo stesso irrefrenabile desiderio di conoscenza che scorreva impetuoso nelle sue vene e che non lo aveva abbandonato mai, nemmeno in quel corpo ormai stanco e segnato dal tempo.
Solo quando il racconto finiva, il ragazzo riprendeva a parlare con la sua solita irruenza, urlando “ancora, ancora!”. Ma ogni volta era tardi, il sole stava già calando e Ulisse, ridendo, gli accarezzava la testa con la sua mano forte e callosa, promettendogli di avere pronta un’altra storia per il giorno successivo. Allora Emanuele - ci diceva - tornava il giorno dopo, e così per tutta l’estate. Emanuele ci raccontava che nella baia esisteva una stanza segreta in cui solo Ulissepoteva entrare, dove egli custodiva gelosamente tutti i tesori della terra, raccolti durante i suoi viaggi. Li teneva là dentro, aveva spiegato, perché voleva proteggerli dagli uomini e dalla loro avidità. Ma il bambino aveva sentito dal vecchio che esisteva un tesoro cento volte più grande degli altri, che non poteva essere tenuto in quella stanza. Emanuele non capiva e domandava instancabilmente che cosa fosse, sentendosi rispondere sempre con una grossa risata. “Non è oro, Emanuele, nemmeno avorio o argento. Ora è un piccolo germoglio fatto di carne, muscoli e ossa, che è curioso e vivace; sono certo che manterrà viva la mia memoria qui, quando partirò per il viaggio più lungo e affascinante di tutti”.
Il bambino era rimasto sbigottito e si era guardato attorno alla ricerca di quel germoglio tanto strano e prezioso, ma nemmeno dopo giorni e giorni di ricerche era riuscito a trovare qualcosa che potesse anche solo assomigliargli. “Quando crescerai, potrai vederlo. Abbi pazienza, piccolo!”, gli aveva risposto il vecchio, sorridendo. Ma non aveva pazienza, lui – ci diceva Emanuele – perciò aveva deciso di crescere in fretta, per poter vedere il prima possibile quel grande tesoro di cui Ulissegli aveva parlato. E mentre raccontava, Emanuele cresceva, secondo dopo secondo. Finché, in un giorno senza sole che preannunciava la fine dell’estate, il ragazzo era corso alla capanna, chiamando a gran voce Ulisse. Ma il vecchio non era lì ad aspettarlo; non c’era nemmeno la sua seggiolina di paglia. Ci raccontava di averlo chiamato per ore e ore, ma lui non aveva risposto.
Era tornato i giorni successivi, invano. Ulissenon c’era più, Ulissese n’era andato. A Emanuele piaceva pensare che Ulisse fosse partito per quell’ultimo, bellissimo viaggio di cui aveva accennato. Diceva che un giorno o l’altro sarebbe tornato per raccontargli le nuove avventure, per farlo sognare ancora, per mostrargli il tesoro più bello di tutti. Lo diceva con voce sicura e con sguardo orgoglioso, tanto che io e Jacopo non ci saremmo mai permessi di contraddirlo. Anzi, tacevamo e lo ascoltavamo, immobilizzati dall’aria afosa dell’estate e dalla meraviglia dei suoi racconti.
Ogni tanto, seduti su quel marciapiede fuori di casa, ci avvicinavamo un po’ di più, stretti dalla morsa dell’invidia e dalla straziante consapevolezza del fatto che ciascun bambino di Via delle Terme poteva raccontare le storie ascoltate dal proprio Ulisse. Tutti, tranne noi due. Noi due, i più piccoli, che dovevamo accontentarci di qualche foto sbiadita, di qualche trofeo, di qualche episodio frammentato e confuso che le nostre nonne ci raccontavano riguardo al loro uomo, partito troppo presto per il suo ultimo viaggio; noi due che non avevamo nulla da raccontare, che non potevamo nemmeno dire di essere stati cullati dalle sue braccia forti ed esperte almeno un’unica volta nella vita; noi due, che per poterlo conoscere avremmo dato via tutte le figurine più rare e perfino il nostro bellissimo Game Boy…
"Ulisse" di Silvia Moretto, 3BL
Jeans bassi che lasciano intravedere l’elastico colorato dei boxer, camminata sciolta, forse un po’ troppo molleggiata. Ecco che arriva Ulisse, il “leader”. “Ehi, vecchio, come andiamo oggi?” . Mi risponde con un sorriso accennato e lo sguardo perso nel vuoto. Quando ritorna nel mondo terreno, si volta nella mia direzione e mi domanda: “Oggi sfida?”. Mi basta uno sguardo per rispondergli: “Che la gara abbia inizio!”. Prima di cominciare, però, Ulisse chiama il resto del gruppo: sedici ragazzi, tutti maschi.
Da quando siamo piccoli è lui il capo di questo “branco” e spesso, al pomeriggio, lancia queste sfide; d’altronde Ulisse è un tipo coraggioso. Riuniti tutti e ascoltata la proposta, sette dei sedici ragazzi inizialmente rifiutano, ma bastano poche parole del capo per convincerli. Siamo tutti, possiamo avviarci verso la strada abbandonata.
3, 2, 1… via! Accendiamo i motori e i nostri scooter partono, impennando con la ruota davanti. Oggi siamo tutti molto agguerriti, ma il vincitore rimane come sempre lio: Ulisse.
Appena superato l’arrivo, però, freno troppo in fretta e d’istinto il mio piede destro si appoggia bruscamente al suolo. Crack! Ci mancava solo una slogatura! Non importa, potrò sopportare il male.
Il sole è tagliato in due metà perfette dall’orizzonte, ma nel cielo compaiono delle nuvole nere che minacciano un temporale sicuro.
Prima di rimetterci tutti in sella per tornare a casa, Ulisse prende la parola: “Ragazzi, vi ricordate la casa che sta al di là delle rotaie vicino al campo di papaveri?”. Un coro risponde affermativamente e senza ascoltarci Ulisse prosegue: “Non siete curiosi di vedere cosa c’è all’interno? A volte si sentono dei rumori, ma nessuno ha mai avuto il coraggio di entrarci”. Un borbottio si alza nell’aria, finché uno di noi ha il coraggio di rispondere: “Dicono che dopo le rotaie la zona sia pericolosa”. “E di che hai paura? Di un piccolo serpente?” risponde prontamente Ulisse, zittendolo. “Siamo giovani, se non ci buttiamo nelle avventure noi, chi lo fa? I vecchi? Io ci vado. Siete con me?”.
Alcuni rispondono subito di sì. Io mi schiero con quelli dell’altro gruppo, ma poi ci lasciamo convincere.
In queste nostre strade guidiamo sempre uno accanto all’altro. A me è dato l’onore di affiancare Ulisse. Intanto, come preavvisato dalle nuvole, il temporale non ha tardato ad arrivare. Corriamo a una velocità superiore al limite per poco più di venti minuti, poi, quasi arrivati alle rotaie, sento le parole di Ulisse confondersi tra la pioggia: “Accelera di più: sulle rotaie è divertente!”. “Macché, sei pazzo?”.
Quello pazzo, invece, sono io: lo seguo.
Mancano pochi metri a quei dossi del divertimento sui quali viaggiano i treni e il contachilometri del mio motorino segna 87 km/h: non male per uno scooter modificato da un principiante!
Eccomi arrivato alle rotaie.
Sento dei rumori strani, poi… una luce bianca, un flash.
Che succede? “Ulisse, dove sono gli altri?”. Che strano: la caviglia non mi dà più dolore. Nessuna risposta. Chiamo ancora. Silenzio. E buio…
"Alla ricerca della mia Itaca" di Elisa Tasca, 3BL
Mia madre: la mia "Ulisse" di Carlotta Mestre, 3BL
Quando penso ad Ulisse, appare il volto di mia madre. Potrebbe sembrare strano perchè, effettivamente, una donna esile e dai capelli lunghi, che indossa vestiti, camicette e tacchi alti, non fa di certo pensare ad un antico eroe geco. Eppure per me queste due persone apparentemente opposte hanno più caratteristiche comuni di quanto si potrebbe pensare.
Mia madre, all'apparenza così fragile, è invece, come Ulisse, una persona molto forte. E' stata capace di crescere due figlie da sola, ha saputo sacrificarsi per me e mia sorella proprio come l'eroe greco ha fatto con i suoi fedeli compagni. Ci ha protette e si è adoperata sempre al meglio per farci avere tutto ciò di cui avevamo bisogno. Come Ulisse, nei momenti di difficoltà non si è mai arresa, fronteggiando ogni problema a testa alta e con risolutezza.
Con amore e pazienza mi ha insegnato ogni cosa. Da lei ho imparato a distinguere il bene dal male, ad essere forte ed indipendente, facendo tesori dei miei errori e chiedendo scusa all'occorrenza; ho imparato a perdonare come lei fa con me ogni giorno.
Mi ha sempre spronata a dare il massimo, a fare di più e a non accontentarmi, proprio come Ulisse con i suoi compagni nel canto XXVI dell'Inferno di Dante.
Spesso, durante il giorno, tra il lavoro, la casa e gli impegni di ogni mamma è molto occupata, ma alla fine torna sempre a casa, al porto della sua Itaca, pronta ad ascoltarmi e ad aiutarmi con i suoi consigli o semplicemente con un abbraccio. Durante tutti questi anni ha sempre saputo guidare il timone della nostra famiglia con incredibile destrezza, trasmettendomi amore e valori, diventanto la mia eroina, la mia "Ulisse".