Incontri e riflessioni

Esperienze teatrali

Scritto da Agata Montagner il 28 Agosto 2014.

Esperienze teatrali

Lo scorso inverno mi ero decisa: dovevo trovare qualcosa da fare, perché stavo troppe ore con la sola compagnia di esseri costituiti da fogli e inchiostro, purtroppo non dotati del dono della parola. Avevo abbandonato la danza da ormai quattro anni e, avendo avuto delle spiacevoli esperienze con qualsiasi attività ginnica, non mi sarei inserita in nessun gruppo sportivo. Cercai in internet se esistessero dei gruppi di lettura nelle vicinanze, purtroppo avrei dovuto fare decine di chilometri per raggiungere il più vicino. Quando ormai mi ero arresa, venni a conoscenza dell’esistenza di un corso di teatro a Portogruaro.
Era dalle elementari che non mettevo più piede su un palcoscenico, ma venni rassicurata dal fatto che era solo un laboratorio e non una compagnia di attori professionisti. Purtroppo passavano i giorni e non ricevetti più nessuna notizia a proposito del gruppo di teatro, sino a quando apparve un foglio che invitava gli studenti alla prima lezione-prova.
Premessa: non amavo e non amo tuttora (forse un po’ meno di allora) il contatto fisico. Dopo esserci presentati, cominciammo con degli esercizi per prendere coscienza di noi stessi, degli altri e dello spazio in forma ludica; dopo un’oretta il maestro disse: “Ora dovete correre sparpagliati per la palestra e quando batto le mani dovete fermarvi e abbracciare la prima persona che trovate davanti a voi. Non scappate subito via, state lì e godetevi il momento.” Potrei dire che fu abbastanza imbarazzante. Successivamente sarei venuta a sapere che la sensazione era condivisa anche da altre persone. In quel momento pensai che probabilmente quei maestri non mi avrebbero più rivista. Tuttavia, al momento delle iscrizioni, diedi loro i miei dati personali in un raptus di follia, pentendomene un attimo dopo.

E così cominciò la mia avventura con il teatro, anche se non era il classico corso di recitazione che ci immaginiamo. Era un’esperienza alternativa, come a me piace definirla, costruita sulle emozioni represse dei ragazzi, impregnata di poesia e filosofia. Cominciammo prendendo coscienza di noi stessi e dei nostri sentimenti, esternandoli prima in un modo animalesco e primitivo attraverso le maschere della Commedia dell’Arte e poi raffinandole pian piano.
Il passo successivo fu il contatto con lo spazio che ci circondava: imparare a muovere in spazi grandi e ristetti, affollati e vuoti, anche ad occhi chiusi, facendo riferimento ad altri sensi oltre alla vista. Infine arrivò il lavoro sul contatto con gli altri, la parte più difficile, iniziando dal più basico contatto fisico fatto di abbracci e schiaffi, per passare a un dialogo fatto di parole e concludere con una comunicazione basata sugli sguardi (forse la forma più intima di dialogo). Continuavamo a sperimentare nuovi approcci e a raffinare quelli “vecchi”, quando ci venne chiesto di scrivere un racconto da consegnare dopo le vacanze di Natale, dal titolo: “Viaggio immaginario”.
Arrivò il momento di leggere a voce alta le nostre produzioni e apparvero sogni, esperienze fantastiche, incontri inconsueti. “Ma tutto questo a che fine? “, continuavamo a chiederci. I nostri temi erano da qualche mese finiti nel dimenticatoio e continuavamo a rappresentare “scenette”, quando la data dello spettacolo si stava inesorabilmente avvicinando finché un giorno ci fu consegnato il copione e tutto ebbe senso.
Ciò che noi consideravamo delle semplici rappresentazioni erano alla base dello spettacolo; una volta collegate formavano non una storia, ma la storia di tutti noi: il percorso nascita-vita-morte-rinascita (quest’ultima per chi ci crede). Ma la cosa più emozionante fu la scoperta che alcuni dei nostri brani erano all’interno del copione. Di solito, alcuni autori scrivono la sceneggiatura, si presentano degli attori ai provini, tra i tanti ne viene scelto uno che dovrà adattarsi al ruolo. Invece, il processo per il nostro spettacolo è stato l’inverso. E’ stato il copione a piegarsi rispetto a noi e in questo modo non è rimasto qualcosa di asettico ma è diventato vivo e umano. Senza rendercene conto eravamo noi (ovviamente aiutati e guidati) a costruire la nostra “opera”.
Arrivò il giorno dello spettacolo e il lavoro di un anno intero era condensato in un’ora e mezza tutta da giocare. Alla fine la soddisfazione di avercela fatta era alta ma, a differenza di quello che si può pensare, il risultato non è stata solo una bellissima rappresentazione. Il giorno dello spettacolo sperimentammo quello che ci venne presentato come un salotto teatrale: una trentina di sedie, la nostra “compagnia teatrale” e un certo signore esperto di teatro (e anche di psicologia, a mio parere). L’esperto ci fece delle domande sulla nostra esperienza e fu come una liberazione. Vennero fuori le emozioni e i pensieri più disparati e anche qualche lacrima. Alla fine di questa magnifica esperienza eravamo tutti cambiati. Il teatro come una terapia ci aveva trasformato, facendoci vedere le cose da un punto di vista diverso e togliendo, almeno un po’, la paura di essere giudicati per il fatto di esprimere noi stessi.

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