Agilulfo, Gurdulù, Rambaldo e... noi - Domande sulla vita e sulla morte
Scritto da Redazione il 25 Ottobre 2011.

Testi raccolti e introdotti dalla prof.ssa Luisella Saro
Agilulfo trascina un morto e pensa: “O morto, tu hai quello che io mai ebbi né avrò: questa carcassa. Ossia, non l’hai: tu sei questa carcassa, cioè quello che talvolta, nei momenti di malinconia, mi sorprendo a invidiare agli uomini esistenti. Bella roba! Posso ben dirmi privilegiato, io che posso farne senza e fare tutto. Tutto – si capisce – quel che mi sembra più importante; e molte cose riesco a farle meglio di chi esiste, senza i loro soliti difetti di grossolanità, approssimazione, incoerenza, puzzo. E’ vero che chi esiste ci mette sempre anche un qualcosa, una impronta particolare, che a me non riuscirà mai di dare. Ma se il loro segreto è qui, in questo sacco di trippe, grazie, ne faccio a meno. Questa valle di corpi nudi che si disgregano non mi fa più ribrezzo del carnaio del genere umano vivente”.
Gurdulù trascina un morto e pensa: “Tu butti fuori certi peti più puzzolenti dei miei, cadavere. Non so perché tutti ti compiangano. Cosa ti manca? Prima ti muovevi, ora il tuo movimento passa ai vermi che tu nutri. Crescevi unghie e capelli: ora colerai liquame che farà crescere più alte nel sole le erbe del prato. Diventerai erba, poi latte delle mucche che mangeranno l’erba, sangue di bambino che ha bevuto il latte, e così via. Vedi che sei più bravo di vivere tu di me, o cadavere?”
Rambaldo trascina un morto e pensa: “O morto, io corro corro per arrivare qui come te a farmi tirar per i calcagni. Cos’è questa furia che mi spinge, questa smania di battaglie e d’amori, vista dal punto donde guardano i tuoi occhi sbarrati, la tua testa riversa che sbatacchia sulle pietre? Ci penso, o morto, mi ci fai pensare; ma cosa cambia? Nulla. Non ci sono altri giorni che questi nostri giorni prima della tomba, per noi vivi e anche per voi morti. Che mi sia dato di non sprecarli, di non sprecare nulla di ciò che sono e di ciò che potrei essere. Di compiere azioni egregie per l’esercito franco. Di abbracciare, abbracciato, la fiera Bradamante. Spero che tu abbia speso i tuoi giorni non peggio, o morto. Comunque per te i dadi hanno già dato i loro numeri. Per me ancora vorticano nel bussolotto. E io amo, o morto, la mia ansia, non la tua pace”.
(Italo Calvino,
Il cavaliere inesistente)
Ogni anno, dopo aver incontrato, con loro, l’Orlando di Ariosto, invito i miei studenti di terza a leggere “Il cavaliere inesistente” di Calvino. Poco più di cento pagine. Volutamente non mi perdo in preamboli, volutamente non fornisco chiavi interpretative. Chiedo che prestino attenzione al testo, che sottolineino, che si lascino interrogare da quanto scorre sotto i loro occhi. Poi, in classe, ciascuno dice cosa ha capito, cosa l’ha colpito.
Ogni volta, in questo modo, i ragazzi comprendono meglio Ariosto, lo confrontano con Calvino e si intrufolano, seppur ancora in punta di piedi, come a dargli solo una sbirciatina, nel labirinto del Postmoderno.
Quest’anno è successo qualcosa di nuovo.
Non ci è “bastato” Ariosto, non ci è “bastato” Calvino. Non ci siamo accontentati di conoscere Orlando, Astolfo, Angelica e neanche il pensiero di Agilulfo, di Gurdulù, di Rambaldo.
Quest’anno abbiamo accolto la sfida: abbiamo accettato che le domande sulla vita e sulla morte che direttamente o indirettamente si sono posti i protagonisti delle due opere interrogassero anche noi.
Risultato? Abbiamo scoperto che quando ciò che si studia c’entra con la vita la scuola ha un senso. Finalmente.
"Eppure io sto ancora vivendo..."
di Silvia Moretto, 4BL
Vedo il mio corpo rinchiuso in un “letto di legno” in cui tutto è curato alla perfezione, come se potessi sentire la morbidezza del telo di seta in cui poggia il mio capo o il profumo cosparso sulla mia pelle. Tutt’intorno, un cerchio di persone piange. Versa lacrime per quel corpo che non potrà più camminare, parlare, ridere. Eppure, io sono ancora qui; non posso toccare la morbidezza del telo o assaporare le note profumate della mia pelle, ma sto bene, forse più di prima. Ho dovuto lasciare quella “macchina fatta di carne ed ossa” semplicemente perché non più adatta a contenermi. Eravamo un’unica cosa: un corpo che racchiude un’anima e un’anima che dà vita a un corpo, ma, come a tutti succede, arriva il momento in cui è necessario separarsi. L’ingenuità delle persone le porta a piangere, senza pensare che, un giorno, anche loro saranno qui con me a vedere le cose dall’alto. Eppure io ne sono certa: nel profondo, questo lo sanno anche loro. Tuttavia, apprezzo la dolcezza, l’amore, le emozioni racchiuse in quelle lacrime, perché tutto questo sì, ancora lo posso percepire. Non posso dire loro “grazie”, non posso fare loro un sorriso e non posso asciugare le lacrime che scorrono sulle loro guance, però…io sto ancora vivendo.
"L’autobus delle sei e trenta di ieri mattina non passa due volte."
di Linda Diamante, 4BL
Quattro del mattino. La notte è come una secchiata di pece sul mondo. Sotto il suo abbraccio brulica la luce, spingendo, divincolandosi, cercando di riemergere. E il buio sembra vivo, si muove, respira e turbina lentamente, si rimescola in sé stesso, finché la luce non riesce ad aprirsi un varco, squarciando l’oscurità.
La gente dorme ancora oppure sbadiglia per le strade assonnate, l'aria odora di rugiada fresca. Gli uccellini cinguettano felici alla nuova giornata.
Zachary invece non è contento, né tantomeno assonnato.
Zachary aspetta l'autobus delle sei e trenta del giorno prima e si chiede perché sia così in ritardo.
Zachary siede sulla panchina in acciaio, scomoda e gelida. Sono le sei e quindici, e lui aspetta il suo autobus, una spalla appoggiata alla vetrata di plexiglas sporco e strisciatO; la superficie liscia disturbata dai manifesti incollati l’uno sull’altro, disordinatamente. Gli occhi verdi di Zachary guardano distrattamente il silenzioso svegliarsi del sole, mentre i suoi denti mordono gli anelli metallici che circondano il suo labbro inferiore, uno a destra e uno a sinistra, esattamente equidistanti dal centro.
Zachary aspetta.
Una donna attraversa velocemente la strada, quasi inciampando, con i tacchi che puntellano l’asfalto gelido a ogni passo. Si siede accanto al ragazzo, accavallando le gambe lasciate scoperte da una minigonna troppo corta. Gli occhi verdi di Zachary scivolano su di lei. E’ bella, pensa. Lei sorride, schiudendo le labbra rosse in modo provocante.
- Cosa aspetti? - la sua voce calda sembra risvegliare la luce del sole, che si tinge di un tono più caldo.
- L’autobus delle sei e trenta - Zachary si sistema il giubbotto, guardandola negli occhi. Sono neri e liquidi come il petrolio, e sembrano capaci di inghiottirlo.
- Dove stai andando? - le sue labbra si arricciano in un sorriso.
-Dalla mia amata - Zachary abbassa lo sguardo al suo orologio. Sei e ventitré.
- Parlami di lei - il suo tono imperativo non ammette possibilità di rifiuto.
- Non so molto di lei. Sai, non sono stato io a sceglierla, è una specie di fidanzamento combinato. So che si chiama Vita. E mi hanno detto che è la più bella di tutte, che imparerò a conoscerla e ad amarla sempre di più -
- E tu ci credi? Tu credi che sia più bella di me? - La donna poggia una mano sulla coscia di Zachary, costringendolo a guardarla.
- Non…non lo so - Zachary esita.
-Vieni con me - le sue dita affusolate si intrecciano a quelle forti di Zachary.
- Non conosco nemmeno il tuo nome -
- Vanità -
L’autobus delle sei e trenta arriva nell’esatto momento in cui loro due se ne vanno. La pioggia comincia a cadere al suolo, arrabbiata e pesante.
Zachary si sta aggiustando il berretto di lana sugli occhi quando una donna gli si siede accanto. E’ leggera e il suo abito di pizzo nero svolazza accarezzato dal vento, ma Zachary non ha tempo per guardarla meglio. Lui aspetta l’autobus delle sei e trenta del giorno prima.
- Cosa aspetti?
- L’autobus delle sei e trenta di ieri mattina -
- Lo perderai - dice, e la luce dell’alba accarezza la sua voce di donna, fredda e asciutta come la notte.
Zachary guarda l’orologio. Il suo autobus è in ritardo.
Rimane in silenzio, appoggiandosi alla parete di plexiglas. Dei manifesti di carta di ieri non rimangono che brandelli. Sembra una fotografia della sua vita, pensa Zachary. Momenti vissuti, confusi, sbiaditi come i colori delle vecchie stampe affisse alla parete, strappati via con violenza, ma i segni di ciò che è stato ancora visibili, impossibili da grattar via.
I suoi occhi verdi sono spenti, le sue mani callose, la sua pelle segnata dalle rughe.
Vanità lo tiene per mano, trascinandolo tra la gente, quasi correndo. Corrono insieme a zig zag, verso una meta che, sempre ammesso che ci sia, conosce solo lei. Zachary la segue, senza domandare nulla. Corrono attraverso un vortice di immagini, colori, sensazioni, odori. Ma Zachary corre troppo veloce e non riesce a distinguere nulla.
Passa il tempo, ma la donna trascina Zachary così prepotentemente da impedirgli di rendersi conto anche dello scorrere dei minuti, delle ore, dei giorni.
I loro passi stanchi risuonano nel buio del luogo in cui si sono conosciuti. Rallentano, finalmente, fino ad arrestarsi: Vanità ha riportato Zachary alla fermata dell’autobus. Sono le tre e mezza di mattina, e per la prima volta dal giorno del loro primo incontro, le loro mani si lasciano.
- Devo andare - Il suo tono non lascia trasparire emozioni.
- Perché? Io ti amo! Non mi ami più? - Le lacrime scendono lente e taglienti sulle guancie di Zachary.
- Io non sono per sempre, Zack. Niente è per sempre - e se ne va, lasciandogli un gelido, amaro bacio a fior di labbra che ha il sapore del vuoto.
- Guardami - la donna dal vestito nero interrompe il silenzio, di nuovo. Zachary alza gli occhi verso il volto da cui la voce proviene. Ma non c’è nessun volto a rispondere al suo sguardo, dall’altra parte.
- Chi sei? - Zachary conosce già la risposta.
- Mia sorella ti ha aspettato a lungo - c’è una sottile nota di compassione nella sua voce.
- Non so di cosa parli - Zachary mente.
- Lo sai, Zack. Mia sorella Vita ti ha aspettato per molto, ma hai sprecato il tuo tempo -
- Mi ha aspettato? Mi aspetta ancora? -
- No. Non più. Ora è l’amante di molti altri uomini -
- Mi ha tradito! -
- Tu l’hai fatto, Zachary. L’hai tradita - lui piange. Sa che è vero.
- E tu? Tu perché sei qui? -
- Sono venuta a prenderti. Il mio nome è Morte, e tu starai con me, da ora in poi -
- Ti prenderai cura di me? -
- Di te e di tutti gli altri uomini -
- Ho paura di te, Morte! Non hai nemmeno un volto. Come puoi essere così brutta, se sei sorella della bellezza più grande del mondo? -
- Io ce l’ho un volto. Solo che tu non puoi vederlo -
- Perché non posso? -
- Perché io e Vita siamo sorelle gemelle. Se solo ti fossi fermato di fronte a lei a guardarla per un secondo, se solo non avessi perso il tuo tempo facendoti trascinare da Vanità per tutto il tempo ora conosceresti il mio volto. Io e lei siamo uguali, Zachary. Se l’avessi osservata in tutta la sua bellezza, potresti vedere il mio volto splendido, e continuare a vederlo per l’eternità -
Zachary si asciuga le lacrime con IL dorso della mano. Lei gli accarezza una guancia, ma il suo tocco è inconsistente e più gelido del ghiaccio. Morte gli sorride e gli porge una mano. Zachary annuisce e si alza, seguendola verso il nulla.
"Vivi ogni giorno come se fosse l’ultimo."
di Alessia Ferro, 4BL
Non so che università frequenterò, cosa farò da grande; non so nemmeno cosa mangerò domani a pranzo, ma di una cosa sono certa: un giorno morirò. La morte è qualcosa a cui nessuno di noi può scampare, ci rende tutti uguali; ma la cosa che ci accomuna più di tutte è il fatto che nessuno di noi vuole morire.
Non capisco se questo pensiero mi spaventa e per adesso cerco di non pensarci troppo, visto che, almeno in teoria, ho ancora una lunga vita davanti a me e voglio godermela senza incupirmi con queste riflessioni. Ma se provo a soffermarmi e penso che questo potrebbe essere l’ultimo giorno della mia vita, mi rendo conto che non sto impiegando il mio tempo come vorrei.
E’ difficile mantenere questo pensiero vivo nella mia mente giorno per giorno, però solo così mi accorgo che il tempo che ho a disposizione è limitato e che quindi non devo sprecarlo.
Vedo molta gente, compresa me, che spreca il proprio tempo facendo nulla, nascondendosi dietro giustificazioni futili, senza rendersi conto che il tempo passa e solo quando è troppo tardi ci si accorge di ciò che si è perso e così, spesso, tutto ciò che resta sono rimpianti. Molti, infatti, non sanno di essere morti ancora prima di aver cominciato a vivere, intrappolati in vite che non sentono proprie, che logorano pian piano il loro essere e così cominciano a morire dentro aspettando solo il momento che arrivi la morte, quella vera.
Riflettendo su questo, ho capito che dobbiamo concentrarci sulla vita che c’è prima della morte, sfruttando ogni singolo momento per avere un’esistenza piena di emozioni, esperienze e, probabilmente, anche di tanti errori.
Ed è per questo che secondo me è molto importante vivere ripetendo e ricordando questa frase ogni giorno: “Vivi ogni giorno come se fosse l’ultimo”. Infatti è solo così che si riesce a vivere la vita pienamente: in compagnia del pensiero della morte. Ma non quella cupa e triste: una morte che arriva dopo una vita sfruttata al massimo delle sue possibilità, essendo fieri di ciò che si è compiuto durante la propria esistenza.
Per questo motivo non si deve aver paura della morte, ma di tutta la vita precedente, perché quando arriva al termine non si può fare nulla per tornare indietro e cambiare le cose.
“ 'Quella' soglia…"
di Antonella Nicole Mennitto, 4BL
“Tutti gli uomini credono che tutti gli uomini siano mortali, tranne sé stessi”. (Edward Young)
“Non ho paura della morte, ma di morire”. (Indro Montanelli)
“Non è che ho paura di morire, solo che non voglio esserci quando accadrà”. (Woody Allen)
Questi tre aforismi mi hanno colpito, perché mi sono sentita “presa in causa”. Penso sia la prima volta in vita mia che scrivo qualcosa sulla morte, che mi sforzo di pensare cos’è “per me”, cosa provo quando sento questa parola.
È difficile parlarne perché è un tema sul quale non rifletto mai, perché mi fa paura. È questa la verità: mi fa paura sapere che da un momento all’altro potrei non esserci più! Lo so che probabilmente mi aspetta qualcosa di magnifico, di più grande, perché credo nell’anima e so che non finisce tutto in questo mondo, eppure l’idea di lasciarlo mi terrorizza ugualmente.
Ho scelto quegli aforismi perché rispecchiano l’idea che ho della morte in questo momento della mia vita. Tante volte mi fermo a pensare, cerco di migliorarmi come persona, come figlia, come studentessa; di non commettere errori…ed è proprio questa continua lotta contro la mia pigrizia, i miei difetti a tenermi legata così tanto a questa vita.
Amo vivere! Amo stare con gli altri, piangere, ridere, scherzare, sbagliare, urlare… Amo tutto della mia vita, e del mio mondo, e penso che non sarò mai pronta a lasciarlo, o forse è troppo presto per pensarci. Il fatto è che potrei morire ora come fra settant’anni e dire questo mi costa tanta fatica! La morte arriva e ci prende quando vuole, quando è giunto il nostro momento e dobbiamo saperla accettare, perché anche la morte fa parte della vita.
Ancora non riesco a pensare che succederà a me, anche se tante persone che conosco se ne vanno: giovani, amici, parenti, conoscenti… So che tutti siamo mortali, ma spesso è come se io non mi rendessi conto di esserlo. Eppure avverto quanto sono fragile; so che basta pochissimo per varcare “quella” soglia…
A volte vorrei non rendermene conto, vorrei essere capace di non pensarci, ma sto crescendo e se fino adesso non sono riuscita ad affrontare a fondo questo tema devo farlo, anzi, voglio farlo!
Non desidero omologarmi a questa società che considera la morte un tabù…
"Dialogando con me stessa"
di Elisa Tasca, 4BL
Una leggera brezza autunnale soffia insistentemente facendo cigolare a brevi scatti il balcone socchiuso di camera mia. Mille stelle splendono nel cielo la cui luminosità è, a tratti, coperta da leggere nubi grigie. La luce della luna riflette sul muro verde della stanza facendo intravedere una sagoma umana poco riconoscibile.
S: “Ho paura, tanta paura.”
E: “Di cosa?”
S: “Di morire.”
E. “Perché?”
S. “Perché non voglio che la morte rubi la mia vita. Voglio viverla al meglio, fino a quando lo stabilisco io. Magari anche per sempre.”
E. “Non puoi. E’ impossibile.”
S. “Perché?”
E. “Perché la vita ha un senso solo con la morte: se essa non la completasse non sarebbe vita. Pur essendo profondamente contrastanti, vita e morte sono complementari, unite da un legame indissolubile. E come potresti vivere vedendo morire chi ti sta accanto, nella consapevolezza che tu continuerai a invecchiare senza poter mai più raggiungere in un'altra realtà che hai amato? Se veramente esiste, se tu ci credi…”
S. “Non lo so. Molte persone, senza rendersene conto veramente, ‘credono’ per sentirsi protette, per una esigenza personale. Forse anche io… Perciò non so se credo veramente in una vita nell’aldilà. Tu ci credi?”
E. “Non lo so. La penso come te.”
S. “E tu? Hai paura della morte?”
E. “Non è tanto la morte che mi spaventa. E’ il morire ciò che mi terrorizza. L’atto in sé della morte è inevitabile e credo non me ne renderò conto; ma morire è un passaggio, una trasformazione, una frase transitoria, un’ instancabile attesa verso ciò che crediamo ci sia o non ci sia.”
S. “E la morte, quindi, cos’è per te?”
E. “La morte è sofferenza, è mancanza, è la rottura di un equilibrio e di un’apparente serenità che ci contraddistingue. Ma questo è soggettivo…”
S. “Perché è soggettivo?”
E. “Credo che ognuno ‘viva la morte’ in modo differente, personale, speciale; credo che per poter definire la morte, ognuno di noi abbia bisogno di pensare alle proprie esperienze di vita e ai sentimenti provati. Penso che in gran parte questo dipenda dal significato che noi diamo al cielo.”
S. “Il cielo?”
E. “C’è chi crede ci sia il paradiso, c’è chi crede ci siano i propri cari, c’è chi lo considera semplicemente un’immensa distesa azzurra.”
S. “E tu? Tu come guardi il cielo?”
E. “Lo osservo e sorrido, pur non avendo, ancora, alcuna certezza. Ma pongo ogni mia speranza in esso”.
S. “Accetti la morte?”
E. “No. Non la accetto e non la accoglierò con benevolenza. Credo però che l’uomo sbagli a sentirla lontana: la immagina come un evento che riguarda solo gli altri e non sé stesso. Essa viene rifiutata, respinta, come se non avesse a che fare con ciascuno, anche se, prima o poi, tutti dovremo assaporarne la fredda realtà. Dobbiamo rassegnarci. Fa parte di noi.”
S. “Ed è strano pensarci…”
E. “E’ strano ed è doloroso. Quando ci penso chiudo gli occhi e vedo una profondità tetra, qualcosa di inspiegabile a parole; la mente formula mille pensieri che si intersecano vorticosamente senza lasciare un ordine preciso. Non rimane un’immagine nitida, comprensibile, ma piuttosto offuscata, cupa.”
S. “Lo so bene.”
E. “Noi proviamo le stesse cose.”
S. “Io sono parte di te. Siamo indistinguibili, indissolubili, nessuno ci separerà: neanche la morte.”
Osservo la sagoma trattenendo il respiro. Nessun rumore. Mi stendo sul letto rimboccando le coperte e cercando la posizione più adatta per riposare. Lei fa lo stesso. Mi giro voltandole le spalle, guardando in direzione cielo. Sorrido al cielo, sorrido alla sagoma di me stessa: so che almeno lei non mi abbandonerà mai.
La morte è un “the end”, un’ uscita sorprendente, spiazzante, angosciante. La parola “fine” racchiude in sé un senso di limitatezza, costrizione: rappresenta un punto di non ritorno. Devo socchiudere gli occhi per evitare di provare una profonda sensazione di vuoto e scivolare in mille altri pensieri che rapiscono la mia mente e attaccano la mia essenza, le mie più grandi fragilità, le mie più profonde paure, le mie piccole, flebili certezze.
"Esserci. Non solo esistere."
di Ilaria Masolin, 4BL
“In fin dei conti, per una mente ben organizzata, la morte non è che una nuova, grande avventura.”
Queste le parole del professor Silente, indirizzate ad un Harry undicenne e, ancora più importante, a una Ilaria bambina.
Credo sia stata la prima volta che leggevo della morte di una persona: a quell’età avevo ancora tutti e quattro i nonni e, certo, sentivo parlare delle persone del mio paese che ci lasciavano, ma la cosa non mi aveva mai toccato più di tanto; sapevo che si doveva morire, che non saremmo rimasti qui e gli stessi per sempre, ma lo pensavo come a qualcosa al di fuori di me.
E poi mi ritrovo a leggere queste poche parole all’interno del libro che ha segnato la mia crescita e la mia maturazione, in cui la morte viene presentata come un’avventura. Mi piaceva. Come poteva essere altrimenti? Ero una bambina, in fin dei conti, e a tutti i bambini piacciono le avventure.
In realtà è un’idea che mi piace tutt’ora, sognatrice come sono, ma è un po’ diversa, come se fosse – appunto – un sogno: una speranza per qualcosa che non si può conoscere fino al momento “giusto”, quel momento che segna una nuova e ultima tappa della vita di ogni uomo, come il primo dentino che cade o il primo giorno di scuola. Inevitabile.
Tuttavia, da quel primo accenno sono passati parecchi anni. Anni di letture diverse, anni di maturazione e di esperienze.
Ho provato cosa significa essere sul punto di perdere una madre ed essere la prima a saperlo, e ho visto le lacrime di chi effettivamente l’ha perduta; ho visto mio nonno morire raggomitolato su un letto d’ospedale. Lui che era tanto forte e che non si lamentava mai, chiedere disperato dell’acqua, ultimo tentativo di tenersi ancorato alla vita, per poi spegnersi come una candela. Ricordi.
Ma tante, tantissime volte, mi sono chiesta: e se fossi io quella a morire? Cosa succederebbe?
A pensarci adesso trovo strano che la domanda che mi sorgeva spontanea non fosse stata cosa MI succederebbe. No. Mi interrogavo su quello che le altre persone avrebbero provato: se sarei mancata loro, se avrei lasciato un marchio indelebile nella memoria e nel cuore di qualcuno; immaginavo come sarebbe stato il mio funerale, le persone... Come sarebbe stato quel corpo, il mio corpo, dentro a quella bara.
No, mai… Non avevo e non ho risposte da darmi, per cui mi sembra strano doverci pensare ora, perché credo che sia una cosa che bisogna accettare nel momento esatto in cui ci viene data, non prima.
Cosa ci venga dato in quel momento è difficile immaginarlo… Una vita nuova nell’aldilà? Tornare tra le braccia di nostro Signore? La reincarnazione? Il vuoto più assoluto? Un buco nero stipato di anime ormai perdute?
Sinceramente non riesco a credere a nessuna di queste possibilità, non perché mi sembrino inverosimili, ma perché non riesco ancora a pensare, a concepire cosa possa essere davvero la morte.
Quello che ho sono un pugno di speranze, per me e per le persone che ora mi mancano; ma sono speranze piene di vita: non riesco a pensare a mio nonno che mi guarda dal cielo o cose simili, ma riesco ad evocare le immagini di quando lui era in vita. Ricordi felici o infelici non ha importanza, ma di quando lui era qui, con me. Sembrerà brutto da dire, ma il fatto che lui ora non ci sia più non mi turba, perché è stato bello vivere assieme a lui.
È abbastanza complicato da spiegare e non credo di riuscire a trovare le parole giuste per farlo, però quando penso a lui sono… contenta. Contenta per la possibilità che mi è stata data di stargli accanto per il tempo che sono riuscita a farlo. E sono grata di questa bellissima “coincidenza” di essermi trovata vicino a lui.
Lui come tutte le altre persone che conosco, ho conosciuto e mi sarà dato di conoscere fino a quando anche io non cesserò di vivere.
Quello che secondo me è importante è, quindi, sfruttare il fatto meraviglioso di essere qui, in questo preciso momento e in questa precisa parte del mondo.
Perché, secondo me, tutto sta in quello che in vita si riesce a dare, al segno che si lascia. Il potere di un marchio che contraddistingue Ilaria, mio nonno, la mamma del mio amico, ognuno di noi…
Ed ecco quindi che questa riflessione sulla morte si trasforma in una riflessione sulla vita: il suo contrario. Perché questa possibilità di imprimere il nostro marchio è ora, adesso, domani non si sa ( diceva Lorenzo de Medici,
“del doman non v’è certezza”e non ci sono parole migliori). È quindi ovvio che a noi sta la scelta di sfruttare questa occasione per “esserci” e non per esistere solamente.
Leggendo il
“Cavaliere inesistente”di Calvino ci si trova di fronte un cavaliere che c’è ma non si vede; è come se esistesse ma non ci fosse del tutto: gli manca un corpo, gli manca “l’esserci”. Alla sua morte Rambaldo prende la sua armatura e…fine: Agilulfo non esiste nemmeno più. È come se non ci fosse mai stato, perché un’ armatura vuota è precisamente un’ armatura vuota e null’altro.
La mia speranza è di non essere un’ armatura vuota: lucida e bella fuori ma senza quel “qualcosa in più” che la contraddistingue dalle altre. Ed è quindi una speranza puramente di vita: non di avere agi, non di veder scomparire il dolore e le sofferenze, non di trovare la pace, perché l’importante è ciò che mi è dato adesso.
È proprio per questo che l’idea della morte come avventura ora mi sta un po’ stretta, rispetto a quando avevo nove anni. È un’idea bellissima, ma non ci credo appieno, e siamo già a un secondo stadio: ho già cambiato opinione.
Mi chiedo quante volte ancora la cambierò prima di poter scoprire cosa “succede”, o cosa “non succede”, alla fine…
"La vita? Un privilegio"
di Marina
“La morte è una destinazione che tutti condividiamo. Nessuno le è mai sfuggito.” (Steve Jobs)
Colpisce quando meno te l'aspetti, la morte. Non importa chi tu sia. Puoi essere l'uomo più ricco sulla faccia della Terra. Anche il tuo tempo è limitato, come quello di tutti. Un giorno sei qui, a fare le cose che solitamente fai, il giorno dopo non si può sapere.
La morte mi spaventa e suscita in me interesse al tempo stesso.
Nessuno può sapere cosa ne sarà di noi, quando il nostro cuore cesserà di battere e la nostra mente di pensare. Ed è questo che mi affascina: il fatto di trovarmi a riflettere su uno dei più grandi interrogativi della vita, consapevole che nessuno al mondo sarà mai in grado di trovare la risposta.
A parer mio non c'è molto da dire sulla morte, dal momento che di essa sappiamo poco; la vera riflessione andrebbe fatta sulla vita. Di una cosa siamo tutti certi, però: ci è stato donato un periodo di tempo, più o meno lungo, da vivere sulla Terra. Sta a noi decidere se sprecare questo lasso di tempo vivendo con un'ansia costante, con la paura di andarcene senza aver in qualche modo completato il nostro cammino, o se è meglio “vivere ogni giorno come se fosse l'ultimo”. Ed è proprio questa filosofia di vita che, secondo me, permette agli uomini di realizzarsi, di prendere le loro decisioni migliori.
Bisogna vivere la vita fino in fondo, per non trovarsi a dover rimpiangere un'occasione sprecata. Non c'è motivo di aver paura della morte: fa parte della natura. La cosa bella è che ognuno di noi, quando cesserà di vivere, continuerà ad esistere; siamo destinati a lasciare qualcosa di noi alle persone che ci circondano, ai posteri... Continueremo ad esistere anche tramite il ricordo dei nostri cari. L'unica cosa da fare è non sprecare il nostro tempo:
“Carpe Diem”, cogliere l'attimo. Viviamo al meglio e ce ne andremo con la consapevolezza di esserci realizzati, di aver goduto di ciò che di più bello ci è stato donato: la vita, un privilegio che, putroppo, non tutti hanno.
Quello che ci aspetta dopo questo breve lasso di tempo è un mistero.
“Vivi la vita attimo per attimo perché ogni attimo potrebbe essere l'ultimo.” (Jim Morrison)
"Vivere per qualcosa di lodevole"
di Rachele, 4BL
Ogni tanto vorrei che, come nella più tradizionale novella natalizia di Dickens, un fantasma mi mostrasse quello che sarò fra alcuni anni. In questo modo saprei su quali aspetti importanti per il mio futuro dovrei concentrarmi e, in un certo senso, avrei la possibilità di vivere più serenamente il presente o, in alternativa, adoperarmi per far sì che quello che non vorrei che accadesse non avvenga. Il più delle volte, invece, mi limito a pensare all’”adesso”e a quanto sia curioso non sapere quello che accadrà domani, con la consapevolezza che un giorno tutto finirà e che quindi nessun attimo dovrebbe venir sprecato o considerato meno importante.
La vita è composta di momenti: momenti “pieni”, ricchi di emozioni tristi o felici ma che in ogni caso suscitano in noi una reazione ed è solo alla fine dei nostri giorni, con la morte, che queste sensazioni si annullano comportando una perdita, un’assenza.
Infatti, per me la morte è soprattutto ‘mancanza’:
“Al tempio c’è una poesia intitolata ‘La Mancanza’ incisa nella pietra: ci sono tre parole ma il poeta le ha cancellate. Non si può leggere la mancanza, solo avvertirla.”(Dal film “Memorie di una Geisha”)
Quando qualcuno a noi caro viene a mancare, proviamo una strana sensazione, simile ad un vuoto incolmabile ma, per quanta tristezza possa provocare uno stato d’animo del genere, questo sentimento pulsa per ricordarci che noi ci siamo ancora, siamo vivi e dobbiamo farci forza per continuare a non buttare all’aria il tempo, piangendoci addosso.
Io non credo di aver paura della morte. O meglio, mi spiego: la morte è un fenomeno naturale, avviene inaspettato, senza richiesta ed è così che va la vita. Ciò nonostante è assolutamente umano temere quello che ancora non si conosce e che porta con sé una scia di malinconia e di ricordi; il compito è ricordarci che nulla è eterno. Più che un punto di non ritorno, per quelli che rimangono la morte dovrebbe essere uno stimolo per evitare perdite di tempo. La vita è breve e, almeno per me, sarebbe bello che quando, un giorno (si spera molto lontano) sarà la mi ora io abbia vissuto veramente, senza rimpianti e possa essere ricordata per qualcosa, qualsiasi cosa, di lodevole.
"Il senso del nostro essere 'qui' "
di Carlotta Mestre, 4BL
Da sempre l'uomo, creatura dotata di intelligenza ed ingegno, si interroga sulla propria esistenza. Uno dei dubbi che più lo tormenta è la morte, concetto difficile anche da definire: per molti è una fine, per altri un inizio, per altri ancora un passaggio, una trasformazione. Pochi si rendono veramente conto di ciò che significa.
L'uomo è fatto per la vita e l'istinto di conservazione lo spinge a rifiutare e fuggire l'idea che la propria vita potrebbe cessare, per questo motivo è difficile approcciarsi a questo concetto che appare astratto e lontano da noi.
L'unica cosa di cui siamo veramente sicuri è che prima o poi capita a tutti: la vita ha un inizio e di conseguenza una fine. Senza l'uno non c'è l'altra. Questa certezza fa parte di ognuno di noi perché ci viene trasmessa fin da piccoli. A volte assistiamo alla perdita di persone care e in alcuni momenti quasi sfioriamo la morte, ma per la maggior parte delle persone rimane un pensiero latente, che non ha nulla a che fare con la vita di tutti i giorni.
La vita sulla terra assorbe quasi tutte le attenzioni dell'uomo e si insegue sempre qualcosa che si crede porti alla felicità: un sogno, un lavoro, un amore, pensando che il tempo a disposizione per raggiungerla sia infinito. Spesso, però, nel viaggio verso quest' obiettivo ci si dimentica di fermarsi e guardarsi attorno, di godere di ciò che la vita ha da offrirci. Tante piccole cose si danno per scontate e senza quasi accorgercene arriviamo al termine dell’esistenza senza essere soddisfatti, senza aver trovato il senso del nostro essere stati “qui”.
Nessuno dovrebbe permettere alla propria smania di grandezza di distrarlo da tutta la bellezza che la vita regala, e soprattutto non si dovrebbe mai dare nulla per scontato.
Il solo fatto di aver avuto la fortuna di nascere ed essere vivi dovrebbe suscitare un senso di meraviglia continuo…
"Vita e morte"
di Laura Scarpa
Siamo qui, tutti e tre disposti in fila, poco distanti dai parenti, fra gli amici, anzi, i compagni di classe del liceo. In rispettoso silenzio aspettiamo l'inizio della funzione. Ad un certo punto guardo Sara e vedo qualche lacrima che rapidamente le graffia le guance. Ha sempre avuto la lacrima facile, lei: era la più sensibile, la più fragile e noi abbiamo costantemente cercato di proteggerla.
Ma Sara non è più la ragazzina che conoscevamo, la secchiona che sedeva tutti gli anni in primo banco. Ora è una donna, elegante nel suo abito nero, slanciata sui tacchi, con i capelli corvini raccolti sopra la nuca, ma, soprattutto, senza quegli occhiali un po' spessi che la separavano dal mondo e le facevano come da scudo.
Vibra la borsa. Fabio, che è accanto a me, fa un live sorriso e sussurra: "Sempre la solita!" Io borbotto imbarazzata. Accidenti a me e alle mie figuracce!
Spengo subito il cellulare e mentre lo metto a posto lo guardo meglio: bello come sempre, stesso stile di sempre, capelli sempre un po' troppo lunghi, abbronzato (chissà dove lo ha portato una delle ultime avventure…). La barba forse è diversa: più folta e incolta, ma quegli occhi così blu e rassicuranti non cambiano mai e sembrano quasi fuori posto. E' sempre stato un tipo strano: era proprio un personaggio, al liceo! Il classico ragazzaccio per il quale tutte perdono la testa: tatuato, desideroso di fare polemica, ma con un'intelligenza davvero pungente. Non certo un'intelligenza scolastica, visto che lo studio e l'impegno non erano il suo forte, però era forse il più brillante di tutti.
E' una notte d'estate: quelle notti quasi surreali, di quelle che portano dubbi e zero risposte. Tre ragazzi sono seduti là sulla spiaggia, anzi, per la precisione, due ragazze e un ragazzo. E' il ragazzo che sta parlando. Lo si nota subito che è uno spavaldo, uno che piace e sa di piacere. "La morte. Volete davvero sapere cosa penso io della morte?" Una delle due ragazze lo guarda spazientita e lo invita a proseguire. "Sì, avanti, regalaci una delle tue perle di saggezza, Fabio!".
Fabio abbassa lo sguardo e comincia a parlare: "Diventeremo il nulla, ecco cosa penso. La nostra anima non è immortale, cesserà di vivere assieme al corpo e piano piano anche esso scomparirà. Mangiato dai vermi, incenerito... non cambia niente: diverse strade, la stessa meta. Siamo comparsi dal nulla ed è giusto tornare a ciò che eravamo inizialmente: nulla. La morte è il vuoto".
Sara, la ragazza che aveva preferito rimanere in silenzio, lo guarda sbigottita. E' una ragazza insicura, lo si capisce dal fatto che evita sempre lo sguardo altrui e a volte balbetta. Abbassa lo sguardo e comincia a parlare: ''C'è qualcosa dopo, io lo so. Io ci credo al Paradiso. Non so come è e perché Dio ha deciso di farci un regalo così grande, ma sono certa che c'è un posto riservato alla nostra anima, un posto dove non importa se sei bello, brutto, alto o grasso. Un posto dove ognuno può essere sé stesso, senza vergogna. Sono molto credente e questo forse è strano, visto che ho solamente diciassette anni, ma preferisco credere in questo, che nei vermi e nel vuoto''.
Cala il silenzio. Guardano l'unica che non aveva espresso la propria opinione. ''E tu, signorina? Come la pensi?'', chiede Fabio.
Panico. Lei abbassa lo sguardo e sta zitta.
Tutti ascoltano la Messa dedicata a lui. Lui che ha perso la vita a soli ventiquattro anni senza un motivo. Un brutto incidente. In pochi secondi se ne è andato e io non lo so ancora se la sua anima è volata in alto come pensa Sara o verrà mangiato dai vermi per diventare niente, come crede Fabio.
Ricordo bene le loro opinioni, raccontate in un momento di riflessione. Quella notte sembra ieri.
Ma cos'è per me la morte? E' strano come la morte faccia parte della vita, nonostante significhi l'assenza di essa. E' quasi un paradosso, eppure è così: la morte è intorno a noi tutti i giorni e deve essere accettata. Non si può fare altro se non accettarla. Non è possibile impedirla, sconfiggerla, allontanarla: lei è parte di noi.
Sono cresciuta, sono matura, mi sono laureata, eppure non so ancora cosa rispondere a quella domanda. Morte significa viaggio, inizio, fine, nulla, tutto, tristezza e consapevolezza di un mondo migliore al di là di ciò che è conosciuto…
Per anni i filosofi se lo sono chiesti, lo hanno immaginato e raccontato; le religioni hanno cercato di dare la loro spiegazione, perché l'uomo ha bisogno di risposte, di certezze, di speranza. La verità è possibile conoscerla vivendo la morte: un biglietto di sola andata.
Vivendo la morte? Ma come è possibile che morte e vita si intreccino così? Non è forse, morire, l'opposto di vivere? No. Non credo. Morire fa parte del vivere. Morte è vita. Il non essere penso sia ciò che più si contrappone al vivere, all'essere.
Ciò che più mi fa rabbia è la consapevolezza che quando succederà, quando scoprirò cos'è, non potrò raccontarlo, e per questo, ora, seduta in questa chiesa, fra gente che ha trovato la risposta e altra che ha solo speranza, decido di non rispondere, di accettare questa morte e di vivere ogni singolo giorno.
Decido di “essere”, consapevole che prima o poi “non sarò” più…
"In Loving Memory"
di Elisa Furlanetto, 4BL
“Thanks for all you've done, I've missed you for so long, I can't believe you're gone...”
Il vento accarezzava le sue umide guance mentre continuava a sussurrare al cielo e a stesso “non te ne sei mai andata”.
“Tu vivi in me”. Una frase che mai era stata più vera. In quel momento Mark sapeva che lei era lì, a fissarlo, ad un passo da lui.
“Avevo solo 11 anni, mamma...non ero pronto...”.
Una calda luce arancione invadeva quel campo cullato dal fruscio di spighe di grano, e i suoi passi lasciavano delle tracce pesanti, creando degli spazi vuoti in quel meraviglioso tappeto giallo.
Perché Dio l'aveva portata via? Perché proprio lei? La persona più dolce del mondo. Dava il cuore per aiutare le persone. Quando combinava qualche malanno lei aveva la magia di non perdere mai le staffe. Amava incondizionatamente il genere umano; non portava mai rancore per nessuno e trovava del buono in chiunque.
“...but now I come home and I miss your face so, smiling down on me, I close my eyes to see, and I know, you're a part of me...”
Eppure quel senso di impotenza che Mark si era portato dentro per troppo tempo lo stava divorando. “Che senso ha vivere se non potrò mostrarti la bellezza del viso di tuo nipote? Che senso ha vivere sapendo che né io, né lui, vedremo mai il tuo sorriso?” Le parole si perdevano nell'aria, mescolandosi all'immagine di un uomo con le lacrime agli occhi.
Poi Mark ricordò.
La mano di sua madre che premeva contro il suo petto e l'immagine di suo padre che piangeva disperato fuori dalla stanza, dopo la notizia che la malattia l'avrebbe presto portata via.
“Ricordati, amore mio: io vivrò sempre qui”. Premeva più forte; ogni spinta era una fitta al cuore del bambino.
“Non dimenticare mai che ti amo e mi raccomando: comportati bene con tua sorella...”
Perfino nel letto di morte non riusciva a pensare a se stessa.
Mark non sapeva che quella sarebbe stata l'ultima volta che avrebbe sentito la voce di sua madre...
“...I sing it while, I feel I can't hold on, I'll sing tonight, 'cause it comforts me...”
Le persone non muoiono davvero. “Lei” non era morta davvero. Ogni giorno viveva attraverso il sorriso di Mark e, grazie a lei, era potuto diventare l'uomo che era.
È una cosa che si capisce solo dopo, ma morire non significa nulla; quello di cui bisogna preoccuparsi è ciò che riusciamo a donare durante il corso della vita. Un bacio, un insegnamento, un abbraccio, uno sguardo, un aiuto, una frase, un “grazie”.
Nel momento in cui nasciamo, modificando per sempre il corso delle cose, vivremo per sempre.
Non importa quanto si vive, ma quanto riusciamo a beneficiare del dono della vita, per amare e migliorare la vita delle altre persone.
Quando qualcuno muore “fisicamente”, il dolore che porta con sé il distacco permette di non dimenticarla mai.
Non preoccupiamoci troppo di voler essere ricordati per sempre: insegniamo ad un bambino a condividere le sue caramelle con chi non ne ha, e noi tutti continueremo a vivere in quel gesto. Anche quando i figli dei suoi figli siederanno al ciglio di una strada a scartare l'ultima caramella per darla al loro amico.
“I'm glad he set you free from sorrow, I'll still love you more tomorrow, and you'll be here with me still.
And what you did you did with feeling, and you've always found the meaning, and you always will, and you always will, and you always will...”
“Papà, perché piangi?”, sussurra una dolce vocina aggrappata alla sua gamba.
Il sorriso di quel bimbo era così maledettamente e perfettamente uguale a quello di lei, che sembrava gli stesse parlando attraverso gli occhioni umidi di quella piccola creatura che non sopportava la vista del padre triste.
Il frastuono di un solo pensiero affollava la mente di Mark : “Who'll watch over you when I'm gone?/ Chi veglierà su di te quando me ne sarò andato?” e così in un istante gettò via il coltello con il quale stava per fare la pazzia peggiore della sua vita. Sapeva che aveva ancora molte cose da insegnargli e che poteva attendere ancora un po' per riabbracciare sua madre.
“Niente, figliolo...per un attimo mi è mancato il tuo sorriso”.